Di Umberto Siro
Le elezioni che si sono svolte lo scorso 2 febbraio in Thailandia, sono state boicottate dall’opposizione: in 9 province su 76, tutte nel Sud, dove nessun seggio è stato aperto e nella capitale, dove gli anti-governativi hanno ostruito l’accesso ad alcuni uffici amministrativi da dove sarebbero dovute partire le schede elettorali. Diversi distretti si sono visti costretti ad annullare il voto. Un secondo turno di votazioni è previsto per il 23 febbraio e altre elezioni suppletive potrebbero rivelarsi necessarie per quelle circoscrizioni dove non è avvenuta la registrazione dei candidati. L’esito di questa situazione è la paralisi legislativa e il rischio che si fa sempre più concreto di un annullamento del voto, considerata la mancanza di un quorum di deputati necessario per dare il via alla legislatura e il fatto – come ha sottolineato il “Financial Times” – che “tutti i ricorsi contro la validità del voto probabilmente saranno valutati da Tribunali tradizionalmente vicini all’opposizione, che è radicata nella classe dirigente”.
La proposta di amnistia. Il motivo scatenante della crisi che si è intensificata dallo scorso mese di novembre e che dilania il Paese, è dovuto alla decisione del governo presieduto da Yingluck Shinawatra di presentare una proposta di legge sull’amnistia, che permetterebbe al fratello dell’attuale premier, Thaksin, sia di tornare dall’esilio senza scontare una condanna a 2 anni per corruzione ricevuta nel 2008 sia di ottenere la sua sostanziale riabilitazione politica. L’opposizione – guidata dal Partito democratico – chiede le dimissioni del governo, la sospensione della democrazia parlamentare e la nomina di un “consiglio del popolo” senza passare per le elezioni, perché teme che la legge, bocciata dalla Corte Costituzionale, possa essere riproposta.
L’ostilità nei confronti del governo è ormai radicata. La società thailandese mostra, soprattutto nelle sue componenti borghesi e delle province meridionali, un’insofferenza sempre più marcata contro il regime che ha segnato gli ultimi 10 anni della sua storia, rappresentato da Thaksin Shinawatra. Dall’altra parte, l’esponente che guida il movimento di opposizione, l’ex parlamentare del Partito democratico, Suthep Thaugsuban, non possiede un passato cristallino: anch’egli è accusato di corruzione e anche di omicidio, per avere ordinato l’intervento dell’esercito contro le proteste pro-Thaksin del 2010 – all’epoca era vice-premier – che provocarono quasi 100 morti e oltre 2mila feriti. In questo contesto, così contradditorio e pieno d’incognite, potrebbe giocare un ruolo l’esercito, se le manifestazioni dovessero continuare e la violenza dovesse aumentare. Sono in molti a ritenere che la situazione della Thailandia, la seconda economia del Sud-Est asiatico, possa risolversi solo con un colpo di Stato, nel solco di quanto peraltro è accaduto dal 1932 ad oggi, da quando è diventato una monarchia costituzionale. Da allora, sono stati contati 18 colpi di Stato. L’ultimo, quello del 2006, depose dal potere proprio Thaksin Shinawatra. L’esercito, fino ad ora, si è dimostrato neutrale e, su ordine del governo, ha difeso in questi mesi, con decine di migliaia di uomini, le sedi istituzionali che i manifestanti avrebbero voluto assaltare con lo slogan “Siamo i proprietari della Thailandia”. Un Paese che sta subendo le conseguenze delle rivolte e delle manifestazioni e che, pur possedendo un’economia solida, ha larghi strati della sua popolazione in uno stato di sofferenza.

 

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