Di Angelo Paoluzi

È un capitolo aggiunto tardivamente – e va detto: colpevolmente – alla storiografia della Resistenza: la testimonianza offerta da 615mila ufficiali e soldati italiani che i tedeschi rinchiusero dopo l’8 settembre 1943 nei Lager e che ci rimasero per diciotto mesi, sino alla fine della guerra nel maggio 1945, avendo rifiutato di servire sotto il III Reich o di aderire alla Repubblica di Salò. La decisione presa da Hitler il 20 settembre 1943 li privò persino dello status di prigionieri di guerra e così gli “Internati militari italiani” non poterono godere delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali.
La quarta Resistenza, è stata chiamata: accanto a quella dei partigiani in armi, del sotterraneo sostegno popolare ai “combattenti dell’ombra”, dei soldati del Cil, il Corpo italiano di liberazione. Un fronte, quello dei campi di concentramento, che pose problemi logistici a Berlino: che ne guadagnò in forza-lavoro coatta ma fu costretta a impiegare decine di migliaia di carcerieri, molti dei quali sottratti alle esigenze belliche. Esso influì inoltre negativamente sulla possibilità per la Rsi sia di mettere in piedi un esercito degno di questo nome, sia di trarne motivo di propaganda; anche perché la condizione di “schiavi di Hitler” nella quale i prigionieri furono ridotti si tradusse in una miserabile vendetta per i 600mila “no” a Salò. Oltretutto soltanto una trentina dei più che trecento ufficiali superiori, generali e ammiragli, aderì – spesso tardivamente – alla Repubblica sociale.
In memorie, diari, lettere, rapporti c’è molta sofferenza, fame, denuncia di violenze, ma anche fierezza e orgoglio – al di là dai brutali trattamenti cui i prigionieri erano sottoposti -, nella coscienza di una dignità umana da difendere. In quei 773 giorni di prigionia inflitti ai reclusi italiani i tedeschi perdettero, dal punto di vista dell’onore, anche l’ultimo successo militare che avevano riportato, quello contro l’ex alleato italiano.
Da qualche anno gli storici sono tornati a scrutare quel fenomeno, l’unico del genere nella seconda guerra mondiale, e se ne servono anche per rivalutare comportamenti attribuibili al carattere di un popolo. Con testimonianze che, a settant’anni dagli avvenimenti di cui si parla, possono essere indicate come esemplari anche dal punto di vista religioso. Nei documenti riemersi dalle polveri degli archivi – e nei quali non ci si deve meravigliare che un grande spazio sia concesso ai problemi della fame, del freddo, delle violenze subìte, delle sofferenze materiali – sono sottesi elementi di religiosità, da tradursi in vere e proprie professioni di fede. Da rileggere, in questo senso, le trenta, densissime pagine del capitolo “Il tempo del Lager tempo di Dio: la deportazione come esperienza religiosa”, esemplare analisi condotta da Vittorio Emanuele Giuntella, anche per aver sperimentato sulla propria pelle quella situazione, nel suo ormai classico “Il nazismo e i Lager”(Edizioni Studium).
Alcune personalità di spicco lasciarono un segno. Ad esempio Giuseppe Lazzati, nei cui confronti un compagno di detenzione nel campo di Sandhostel, Alessandro Natta – più tardi segretario generale del Pci -, avrà parole di ammirazione, così come riconoscerà il ruolo positivo svolto dai cappellani cattolici. Alcune figure dei quali, come il salesiano don Francesco Luigi Pasa, don Ascanio Micheloni, don Giuseppe Barbero, sono altrettante leggende del mondo concentrazionario.
Altrove, nel campo di Gross Hesepe, si costituì, attorno a un animatore lombardo, Rimero Chiodi, una cellula dell’Azione Cattolica, con tanto di tessera, intitolata a un giovane martire, Renato Scalandri, ucciso nel 1944 a Hammerstein mentre portava la comunione ad altri internati. E un’altra esistenza esemplare è quella di Federico Ferrari, vittima dei suoi carcerieri alla vigilia della liberazione, autore di un diario nel quale si respira religiosità. Vi sintetizza, con lucidità di giudizio e nessun rancore, la miseria del popolo cattolico nell’inferno pagano del nazismo e coglie nella gente lembi di una umanità che attenuano la disperazione. Sostenuto dalla fede non come ultimo appiglio ma come sostanza di vita, continua ad alimentare sentimenti di amicizia verso i compagni di sventura, facendosi intensamente partecipe dei loro problemi.
Un’atmosfera del genere è largamente presente nella memorialistica che sta affluendo da alcuni anni a questa parte, a parziale compenso dell’indifferenza che per lungo tempo ha circondato “quelli dei reticolati”. È anche necessario ricordare, senza voler rivendicare particolari meriti, come si spese la Chiesa per il recupero dei reduci, specialmente attraverso la Pontificia Opera di Assistenza, che diffuse ai parroci precise istruzioni sul modo con il quale essi dovevano essere trattati: non come malati e bambini, ma come uomini che avevano un orgoglio, portatori di una dura esperienza vissuta.
E vogliamo concludere con Teresio Olivelli, protagonista di un’etica della Resistenza nella quale si sintetizzano tutti i valori dei “ribelli per amore”: un ufficiale italiano, esponente dei partigiani cattolici, teorico dei valori di libertà, ucciso a bastonate per aver difeso un compagno di prigionia. “Sui monti ventosi e nelle catacombe della città – così si conclude la sua ‘Preghiera del ribelle’ -, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare. Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”.

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