MARTINSICURO – Circondata dal grande affetto dei suoi numerosi familiari, la signora Ottavina Di Quirico ha raggiunto un traguardo che non a tutti è concesso: 100 anni. Festeggiata dalla comunità e anche da Massimo Vagnoni, Sindaco di Martinsicuro, Ottavina ha ripercorso ai nostri microfoni un secolo di storia ricco di tanti cambiamenti: nei diritti, nello stile di vita e nelle abitudini. Un secolo vissuto da protagonista, grazie al suo carattere forte, combattivo e molto paziente.

Signora Ottavina, come è stata la sua infanzia?
Sono nata a Colonnella il 18 agosto 1923 in una casa in campagna ubicata in contrada della Civita. Mio padre si chiamava Aleandro Di Quirico, mentre mia madre era Maria Di Felice. In tutto eravamo otto figli: sei fratelli e due sorelle. Nell’ordine sono nati Primo e Adamo, due gemelli, poi Domenico, Alberto, Ruggiero e Guido, infine Gentilina e io che ero l’ultima, l’ottava: ecco perché mi hanno dato il nome di Ottavina. La mia infanzia è stata felice, segnata dalla Scuola e dal lavoro. Da piccola ho frequentato prima la Scuola Elementare di Colonnella, poi quella di Martinsicuro, visto che ci siamo trasferiti con la famiglia qui al mare. Ricordo, in particolare, che a Colonnella dovevo fare un bel tragitto a piedi ogni mattina per raggiungere la Scuola. Dalla contrada partivamo noi fratelli Di Quirico e, lungo la strada, man mano che salivamo, si aggiungeva qualche altro bambino. Per fortuna all’epoca non c’erano zaini pesanti come quelli di adesso. Noi avevamo una cartella fatta di cartone, piccola, che conteneva un libro unico per tutte le materie, un quaderno e la penna ad inchiostro ricaricabile. C’erano tutti maestri uomini e una sola donna, la maestra Burrasca, ma non ricordo se questo fosse il cognome o un soprannome che le avevamo dato noi alunni! L’insegnamento era molto diverso da quello attuale. All’epoca, quando iniziavamo le Scuole, noi bambini eravamo completamente analfabeti: non sapevamo né leggere né scrivere, quindi dovevamo iniziare proprio dalle basi. Neanche dalle lettere, bensì dai bastoncini! Dovevamo imparare a tenere una penna in mano e a riprodurre su carta segni orizzontali, verticali e obliqui per poter scrivere alcune lettere, come la A, la E, la I, la T, la N, la M, la V; solo successivamente imparavamo i segni curvi, facendo cerchi e semicerchi, per imparare a scrivere lettere come la O, la U, la S, la P, la B, … Era un lavoraccio! Intere pagine con questi segni! A Scuola si imparava principalmente la disciplina, oltre che a scrivere e a fare i conti. Ma, terminata la Scuola Elementare, per le ragazze non esisteva altro futuro, se non quello di moglie e madre. Anzi, per me è già stata una fortuna arrivare fino alla 5° Elementare, perché spesso le ragazze meno benestanti venivano fatte fermare alla 3° Elementare. La mia, però, per fortuna, era un famiglia media, né troppo povera né troppo ricca. Mio padre, infatti, era un falegname e gli artigiani all’epoca stavano meglio dei contadini. Realizzava principalmente oggetti utili per il lavoro nei campi, come la zappa o il vomere, ma anche suppellettili di arredo, come sedie e tavoli per la casa o anche panche per la chiesa. Esisteva il baratto a quel tempo, quindi veniva pagato in natura, con grano, ortaggi, formaggi o animali, come galline, polli, papere, conigli e maiali. Possedeva inoltre dei terreni che curava personalmente insieme ai miei fratelli e ad alcuni mezzadri. Noi figlie femmine, invece, dovevamo aiutare nostra madre nelle faccende domestiche, imparando così a tenere in ordine la casa e soprattutto a cucinare piatti tipici della cucina abruzzese e marchigiana. Già all’età di otto anni, mia madre mi metteva sotto ai piedi uno sgabellino, così da raggiungere l’altezza giusta per arrivare con le mani ad impastare sopra al tavolo! Ho imparato a fare la pasta all’uovo per preparare le tagliatelle, il timballo e i maccheroncini, ma anche gli gnocchi, la pasta sfoglia per i dolci, le olive all’ascolana che preparavamo con le olive dei nostri campi, dopo che erano state fatte riposare nella soda e rese quindi non amare. Già a dieci anni, mia madre spesso mia madre andava nei campi ad aiutare gli uomini e io e mia sorella restavamo a casa a preparare. Man man che siamo divenute più grandi, abbiamo iniziato a lavorare un po’ anche nei magazzini che raccoglievano i prodotti della terra: noi bambine sistemavamo pomodori, cetrioli, zucchine, frutti e tanti altri prodotti in apposite cassette che venivano spedite nei grandi mercati delle zone circostanti, come quelli di Colonnella, San Benedetto del Tronto e Nereto. Facendo un bilancio ora, considerando l’esperienza dei miei figli e nipoti, posso dire che i momenti di gioco durante la mia infanzia sono stati molto limitati rispetto a quelli attuali. Giocavamo per lo più a campana, a fare il girotondo, ma non ci era permesso di fare tanto di più. I maschi potevano arrampicarsi sugli alberi, ridere e scherzare, mentre noi ragazze dovevamo essere più composte ed occupare il tempo libero imparando a fare l’orlo a giorno o a ricamare. All’epoca erano questi erano i passatempi più adatti ad una fanciulla, soprattutto di sera, dopo cena, quando la famiglia si riuniva intoro al fuoco. Io, ad esempio, da piccola ho dovuto preparare tutta la biancheria per il mio corredo, in quanto già intorno ai dodici anni doveva essere pronto.

L’adolescenza poi come è stata? Quando lei aveva sedici anni, è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. Cosa ricorda di quel periodo?
La guerra è proprio brutta (risponde piangendo). Durante quegli anni, tutti gli uomini, che erano in età e condizione adatta da poter fare il soldato, vennero chiamati a combattere. Mio padre era già avanti con gli anni, quindi restò a casa, ma i miei quattro fratelli dovettero partire tutti. Così fu per i vicini di casa, gli amici e i conoscenti. In zona rimasero solo le donne e gli anziani. Si combattevano due guerre: una combattuta dagli uomini al fronte, una combattuta dalle donne a casa. Entrambi rischiavamo di morire: di fame, di stenti, di dolore o uccisi dai soldati nemici. Uno dei miei fratelli, che svolgeva il suo dovere di soldato su una nave su acque italiane, dopo un attacco nemico, finì in mare e ci restò per giorni, finché fu trascinato sulle coste albanesi, e trovato, pieno di pulci e mezzo morto, aggrappato ad una tavola di legno. Noi a casa vivevamo un altro tipo di pericolo. Ricordo che la costa era una zona di passaggio per le truppe degli alleati anglo-americani, quindi, mentre di giorno potevamo restare in casa e nei campi, cercando di svolgere le consuete attività quotidiane, la sera eravamo costretti a tornare sulle colline colonnellesi come sfollati per andare a dormire in sicurezza. Le azioni militari, infatti, avvenivano quasi sempre durante la notte: noi sentivamo il via vai di soldati che si muovevano e il trambusto che facevano. Quando suonava la sirena, che fosse giorno o notte, dovevamo scappare tutti nelle calate e nei fossi per stare al riparo dagli aerei che bombardavano. Una volta qui a Martinsicuro, vicino alla foce del fiume Tronto, morirono ben sedici persone, di cui molti bambini e ragazzi. Ancora oggi, quando vedo in televisione le immagini di guerra, sono dispiaciuta a tal punto che mi viene da piangere, perché ho vissuto sulla mia pelle che nessuna guerra è giusta e che non ci sono soldati buoni e soldati cattivi: tutti combattono per un ideale che per loro è giusto, ma a costo della vita. Durante gli anni della guerra, nostra madre ogni tanto ospitava qualche giovane disertore e ci diceva che i soldati sembravano tutti giovani e tristi, perché nessuno voleva veramente combattere. Credo che avesse ragione.

E cosa mi dice dell’amore? Dove e quando ha conosciuto suo marito?
Io non mi sono sposata presto. Prima di tutto perché c’era la regola che bisognava andare in ordine di età, quindi prima ho dovuto attendere che si sistemasse mia sorella; quando poi avrei potuto pensare a me, purtroppo c’era la guerra e in quel periodo non ci si poteva sposare. Un giorno ci fu un matrimonio qui vicino a casa. Lo sposo era di Mantova e mio marito, che era un suo amico, venne a Martinsicuro per partecipare al matrimonio. Luigi, che di cognome faceva Viera, era un giovane bellissimo, alto e di bell’aspetto. Mi invitò a ballare più volte durante il pranzo di nozze e la cosa mi fece molto piacere perché mi piaceva molto, ma, quando mi disse che aveva 24 anni, ovvero sei anni in meno di me, ed era di Mantova, pensai che non lo avrei più rivisto. Invece tornò qualche mese dopo per parlare con i miei genitori e nel giro di pochi mesi ci sposammo. Fu amore a prima vista e, in meno di un anno, mi ritrovai a Suzzara, un piccolo paese in provincia di Mantova. Andammo a vivere nella casa che era di sua nonna, insieme a lei. Nonostante fossi stata accolta bene nella regione lombarda, mi sentivo un po’ sola e lontana dai miei affetti fraterni. Ad allietarmi le giornate arrivarono prima Ivana, la mia prima figlia, e dopo cinque anni Claudio, il mio secondo ed ultimo figlio. Le cose iniziarono ad andare meglio per me, perché avevo le giornate piene, ma, dopo circa tredici anni dall’inizio del nostro matrimonio, iniziammo a renderci conto che lì al nord non c’era molto lavoro, perché abitavamo in una località di periferia, ben distante dai centri abitati più industrializzati in cui era richiesta manodopera. Decidemmo quindi di tornare a Martinsicuro, dove mio marito poté lavorare presso la falegnameria di mio padre, insieme ai miei fratelli. Quello con mio marito è stato un grande amore e, non avendo avuto la possibilità di conoscerci affatto prima del matrimonio, devo dire che siamo stati anche fortunati a stare insieme tanti anni. I difetti reciproci, infatti, li abbiamo scoperti dopo il matrimonio! A mio marito, ad esempio, non piaceva tanto il lavoro e spesso questo ci faceva discutere. Lui di me, invece, non amava il carattere deciso e risoluto che avevo, che sicuramente nelle cinque/sei ore di ballo, che avevano fatto insieme, non aveva potuto certo notare! Però abbiamo avuto sempre tanta pazienza e anche fiducia nella capacità dell’altro di migliorarsi. Questo è stato il segreto del nostro lungo matrimonio: essere pazienti ed aspettare che l’altro migliorasse nei suoi difetti.

Come ha trascorso questi cento anni? Quali sono stati i momenti più brutti e quali quelli più belli?
C’è stato qualche momento difficile, soprattutto legato alla salute. Quando avevo settantadue anni, ad esempio, ho scoperto di avere un tumore al seno e ho dovuto affrontare terapie un po’ pesanti e faticose, ma alla fine ce l’ho fatta.
Se devo scegliere il momento più bello in assoluto, invece, sceglierei questo. Ho infatti tutti i miei cari qui con me. Mi sento molto fortunata ad avere vicino a me la famiglia che ho costruito in questi anni: i miei figli Ivana e Claudio e mia nuora Luisa; i nipoti Ilenia, Gianluca, Pierluigi ed Elisa; i pronipoti Pier Cristiano, Gian Marco e Ludovica. Non c’è altro posto in cui vorrei essere.

Come è cambiata la società in questi cento anni?
È cambiata molto, soprattutto per le donne. Ricordo che io non potevo uscire da sola con il mio futuro marito, neanche dopo il fidanzamento ufficiale. Con i miei figli, invece, io sono stata un po’ più morbida. Claudio, essendo un maschio, non ha mai avuto limiti per le uscite. Ivana certamente non ha avuto la stessa libertà del fratello, ma qualche piccola e breve uscita con il suo fidanzato glie l’ho fatta fare, visto che nutrivo molta fiducia in lei e in quello che poi sarebbe divenuto suo marito, Gianni, che purtroppo è venuto a mancare qualche anno fa. Ora è cambiato tutto: i ragazzi e le ragazze possono uscire allo stesso modo, senza distinzioni. Nonostante io abbia vissuto una vita diversa, non sono di quelle donne anziane che criticano le più giovani. Credo, al contrario, che sia una buona cosa il fatto che oggi le ragazze abbiano una maggiore libertà: possono accedere agli studi come gli uomini, possono prendere la patente e spostarsi in autonomia, possono decidere se e come realizzarsi anche nel mondo del lavoro. In tal senso, da madre, ho cercato di dare il mio contributo. E anche con mia nuora ho fatto lo stesso. Anzi, devo dire che non mi sento una suocera per lei, bensì una madre: per questo l’ho sempre lasciata libera di gestire la sua vita e la sua casa come meglio credeva. Ormai sono trentanove anni che viviamo insieme e non abbiamo mai avuto problemi. L’ho sempre spronata a lavorare e ad essere indipendente, come ho fatto anche con mia figlia. Oggi sono felice di aver avuto intorno a me donne di valore, a cui io ho dato valore.

Qual è il suo rapporto con la fede?
Devo dire che, nell’arco degli anni, a seconda del parroco di turno mi sono sentita più o meno vicina alle vicende della parrocchia, però il mio rapporto con la fede è stato sempre abbastanza costante. Finché ho potuto, sono sempre andata a Messa ogni Domenica, ma, ora che l’età non me lo consente, prego da casa. Più che un’abitudine è un’esigenza. Del resto il soprannome della mia stirpe, “u’ tioleche”, ovvero “il teologo”, la dice lunga! Anche se non siamo mai stati una famiglia di dottori colti, abbiamo sempre avuto una certa sapienza nelle questioni religiose e di fede, tanto che questa caratteristica ci è valsa il nome della casata. Tra tutti i sacerdoti che ho conosciuto ricordo molti sacerdoti, ma in particolare don Primo Plebani, che tanto ha fatto crescere la nostra comunità nella fede.

Non posso concludere senza farle una domanda banale, di cui però tutti vogliamo sapere la risposta! Qual è il segreto per vivere fino a cento anni?
Prima di tutto un consiglio per se stessi. Vivere secondo le proprie possibilità. Non pretendere troppo né dagli altri né da se stessi. E accontentarsi di quello che si ha, apprezzando i doni che il Signore ci dà. Altrimenti si provano emozioni brutte come la gelosia, l’invidia, la frustrazione.
In secondo luogo un buon consiglio per vivere bene con gli altri: farsi i fatti propri! Fuori di casa, un “Buongiorno!” o un “Buonasera” non si negano a nessuno; ma dentro casa mia comando io! E, se questo vale per me, deve valere anche per gli altri! Quindi non mi sono mai permessa di giudicare le scelte degli altri, neanche dei miei figli e nipoti, sapendo di essere io la prima a non voler essere giudicata.
Se tutti tenessimo presenti queste due norme di buon senso, saremmo più soddisfatti e felici.

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