X

Agli incroci delle strade, la Caritas è chiesa

Di Don Gianni Croci, Direttore della Caritas Diocesana

DIOCESI – “Abitare il territorio, abitare le relazioni per un gioco di squadra” Tornati dal convegno delle Caritas diocesane tenuto a Salerno desideriamo condividere quanto emerso dalle tante voci ascoltate e suggerire qualche pista di lavoro anche per le nostre comunità. Forte è stato il richiamo ad abitare il territorio, ad abitare le relazioni, a partire da uno sguardo che sa posarsi innanzitutto sulla bellezza: la bellezza del creato, la bellezza di ogni persona! E’ questo è possibile quando si sintonizza il proprio sguardo con quello di Dio, che sempre si posa sul positivo.

Già nella Genesi si legge: “e vide che era cosa buona…e vide che era cosa molto buona!” (Cfr. Gen.1,25.31).

Il libro di Marcella, “Basta guardarli. Lettere in corsivo minuscolo”, che abbiamo regalato a Pasqua, va proprio in questa direzione: imparare a raccontare, soffermandosi sui ‘dettagli’, prima di tutto la ricchezza che c’è attorno a noi e in ogni essere umano! Una ricchezza che va cercata ovunque, perché a volte, come dice la parabola degli invitati al banchetto di nozze, sono proprio le persone scartate a rispondere all’invito alla festa, mentre gli amici dello Sposo hanno altro da fare. Questo è il tempo di andare agli incroci delle strade, lì dove la gente si incontra e non si scontra, per invitare tutti a condividere la festa. Una Caritas triste e presa dalle cose da fare, che non ha il tempo per guardare in faccia le persone, di sedersi e ascoltare, di sorridere, non evangelizza servendo i poveri. Si annuncia il vangelo non solo dando del cibo e pagando delle bollette, ma attraverso relazioni che sanno di comunione. E’ quanto ci hanno insegnato alcune figure importanti come Mons. Nervo, don Peppino Diana, don Tonino Bello, quest’ultimo amava ripetere che quello che conta è voler bene alla gente! Questo amore passa anche attraverso la cura dei luoghi in cui accogliamo – a volte un fiore, un caffe, un biglietto da regalare fanno la differenza – e la cura delle relazioni che viviamo, trattando tutti, anche chi non si fa facilmente amare, con delicatezza, rispetto, e tenerezza. E’ chiaro allora che nei nostri ambienti non basta la collaborazione, tantomeno l’organizzazione, ci vuole, anzi è necessaria, la comunione, che inizia da una gioiosa fraternità vissuta innanzitutto tra i volontari. Ecco allora la proposta che viene dal convegno delle Caritas italiane: lavorare concretamente ad un piano di corresponsabilità. Non è più sufficiente “costruire reti” e “fare alleanze”, bisogna acquisire uno stile sinodale, facilitare il lavoro di insieme. Così come non basta la denuncia per le cose che non vanno, occorre anche fare proposte, che portano ad aprire nuovi ‘cantieri’. Si tratta di costruire opportunità e luoghi dove le povertà vengono affrontate nella logica della dignità e dell’accompagnamento delle persone. Non possiamo rinunciare al sogno di dare a tutti l’opportunità di una vita dignitosa, atto dovuto, in modo particolare, per noi che abbiamo incontrato Gesù Cristo.

Don Marco, direttore di Caritas italiana, a fine convegno suggeriva alcune scelte:
• rimuovere alcuni macigni: le ideologie, il “si è sempre fatto così”, il rinunciare ad un progetto perché fallito;
• condividere un sogno: di fronte a situazioni difficili è importante dare spazio alla speranza. Si torna alla vita se c’è una comunità che spera attorno alla persona. La Scrittura rassicura: la pietra scartata diventa testata d’angolo, come testimoniano tante storie.;
• ridare significato alle parole: con i nostri linguaggi rischiamo di perderci in impostazione proposti da altri, come sta succedendo per la pace, per quella che viene chiamata emergenza immigratoria, ecc.
• ricomporre le fratture: basta col contrapporre Caritas e chiesa: la Caritas è chiesa!
La Chiesa che evangelizza attraverso il servizio ai poveri; basta con la contrapposizione anziani e giovani: ci vuole l’esperienza degli anziani e l’entusiasmo dei giovani, occorre costruire insieme. Questo è il tempo del lavorare insieme e della fraternità; basta con la divisione tra operosità e spiritualità: non è detto che chi è operoso non è spirituale e viceversa. Questo allora è il tempo della co-progettazione: non ci si può rifugiare nello spiritualismo, ma occorre vivere la corresponsabilità per costruire un “sistema” che genera vita. Per realizzare tutto ciò è necessario coinvolgere tutta la comunità chiamata in un gioco di squadra.

Ha scritto don Mimmo Battaglia, il vescovo di Napoli: “le opere grandi si compiono quando facciamo un gioco di squadra tra noi e con il Signore e sono certo che nella misura in cui scommetteremo su questo gioco potremmo realmente rivoluzionare l’ordine ingiusto e iniquo che tante volte avvolge la nostra città, il nostro Paese, il mondo intero. Sì, giocare in squadra con Dio significa credere che il male, la morte, l’egoismo non avranno l’ultima parola sulla vita, sul creato, sulla storia. Giocare in squadra con Dio significa scommettere quotidianamente sull’ impossibile, a volte sentirsi perfino confitti – come il crocifisso – ma mai sconfitti perché sempre risorti e rinnovati con lui ed in lui! Giocare in squadra, tutti, nessuno escluso, anche chi in alcuni momenti della sua vita ha danneggiato il gioco, ha ignorato i compagni, ha commesso falli gravi, ignorando le regole e la fraternità” (omelia 06.05.2023)

Redazione: