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L’incedere dell’inverno demografico

Andrea Casavecchia

La fragilità della struttura della popolazione italiana è sintetizzata dall’immagine dell’inverno demografico. Lo ha sottolineato con preoccupazione anche papa Francesco, durante l’Angelus di domenica 7 febbraio 2021: “le nascite sono calate e il futuro è in pericolo, prendiamo questa preoccupazione e cerchiamo di fare in modo che questo inverno demografico finisca e fiorisca una nuova primavera di bambini e bambine”.
Il recente report dell’Istat che descrive l’andamento demografico del 2019, quando ancora non eravamo stati coinvolti nel turbine pandemico, mostra una situazione inquietante; il crollo delle nascite peserà nel futuro su tutta la piramide demografica, sulla consistenza della popolazione attiva, sul numero degli adulti di domani che avranno il compito di sostenere il sistema produttivo e i carichi di cura a ranghi estremamente ridotti.
I nati sono precipitati. Nel 2019 sono stati poco più di 420mila, registrando il nuovo record negativo di denatalità, e le previsioni stimano che nel 2020 i neonati saranno circa 10mila in meno dell’anno precedente. Si segnerà quindi un altro record, l’ottavo consecutivo.
Anche il tasso di fecondità femminile tra le italiane ha registrato un nuovo record: 1,18 figli per donna, il minore di sempre, il precedente era del 1995 (a 1,19). Fortunatamente in questi anni si aggiunge l’apporto del tasso di fecondità delle cittadine non italiane, che sebbene sia diminuito rispetto al passato, innalza il dato a 1,27 figli per donna.
Se guardiamo i dati al femminile notiamo tre fattori che accompagnano questo risultato: innanzitutto c’è la riduzione del numero complessivo delle donne in età feconda (per convenzione tra i 15 e i 49 anni). Questo elemento non è immediatamente modificabile e ci indica che il crollo delle nascite non potrà essere invertito a breve termine, dato che il numero complessivo delle donne è circoscritto. Ci sono poi altri due fattori che, invece, porterebbero a una riduzione dell’impatto. Da un lato ci sono molte donne che hanno rinunciato a diventare madri, per scelta o per necessità. Se tra le nate nel 1950 le donne senza figli erano l’11% del totale, oggi sono il 22,6% tra le nate del 1979 (quelle che stanno uscendo dal periodo fecondo). Se per alcune è stata una libera opzione per tante altre è stata una scelta costretta, dovuta a una società che pone sulle spalle delle donne tutto – o gran parte – del carico del lavoro di cura e che emargina le mamme dal mondo lavorativo. Dall’altro lato c’è una posticipazione dell’età al primo parto: oggi in media si diventa mamme a 31,3 anni. La posticipazione delle scelte di vita che è un dato culturale porta molte donne a immaginare una maternità oltre i 30 anni. Questo riduce la loro potenzialità di avere figli, tanto che per la prima volta, segnala l’Istat sono diminuiti anche i “primi figli”.
In questo scenario una politica per favorire la natalità diventa urgente e andrebbe impostata guardando al futuro in modo aperto, perché in primo luogo si tratterà di favorire politiche di conciliazione e l’affermazione di una cultura per la parità di genere che favorisca una ripartizione delle responsabilità di cura tra uomini e donne. Perché se l’Italia è un luogo inospitale per le mamme non ci saranno assegni per i figli che tengano per invertire le tendenze.

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