SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Negli ultimi week-end nella nostra Città si sono verificati diversi episodi spiacevoli: schiamazzi notturni, atti di vandalismo e anche un caso di coma etilico. La comunità civile, come quella religiosa, si è interrogata su queste azioni che (forse) sono espressione di disagio e che (sicuramente) recano notevole disturbo agli altri cittadini. Da parte nostra abbiamo voluto ascoltare la voce delle Monache Clarisse del Monastero Santa Speranza, diventato nel corso degli anni un punto di riferimento per tanti sambenedettesi.

Come avete vissuto nella pace del convento le notizie che provenivano dalla Città?
Una comunità claustrale non è un’isola felice, non è un qualcosa di avulso dal mondo, dalla realtà che la circonda, ma se ne sente parte integrante. In questo senso, anche noi monache abbiamo vissuto la difficoltà, la sofferenza di un periodo particolarmente di prova come lo sono stati questi ultimi mesi. Così come, quotidianamente, siamo al corrente di quanto accade nel nostro mondo, nelle nostre città… questo perché ci sentiamo parte attiva e integrante di questa storia, di questa nostra umanità. E con il nostro specifico, che è quello della preghiera, dello spezzare la Parola di Dio, dell’ascolto di chiunque venga a “bussare” alla nostra porta, cerchiamo di dare il nostro contributo affinché possa continuare l’opera di creazione che Dio ha iniziato e che ogni uomo, ciascuno nella propria originalità e dimensione, è chiamato a portare avanti. Questo per dire che ogni situazione che accade genera in noi gioia, preoccupazione, sofferenza, stupore… perché è parte integrante della nostra vita.

Si può pensare che questi atti siano una forma di gestire, ovviamente in maniera sbagliata, l’uscita dal lockdown?
I mesi del lockdown hanno messo alla prova tutti noi: famiglie, bambini, giovani, adulti, anziani, religiosi, sacerdoti… vivere l’isolamento, costretti a volte in spazi angusti, ha messo ciascuno allo scoperto di fronte a se stesso, ai propri affetti, alla propria vita. Forse tutti abbiamo cercato di gestire questo tempo e questi spazi, a volte ne siamo stati schiacciati, a volte li abbiamo sfruttati, a volte goduti. Reazioni come quelle viste negli ultimi giorni, che mettono comunque a rischio la vita dell’altro e che quindi non sono da elogiare, potrebbero essere il segno evidente di una fragilità interiore che viene rifiutata, o forse della poca disponibilità da parte di tanti a far fatica per conquistare o arrivare a conquistare qualcosa. Una reazione attraverso la quale ci si autoconvince di essere invincibili e onnipotenti, immuni dalle difficoltà e dai problemi della vita.

Secondo voi tali episodi sono espressione del vuoto esistenziale, della mancanza di modelli o dell’infelicità?
Troppo spesso cerchiamo di dare una risposta unilaterale a fatti, episodi a volte violenti che vedono come protagonisti i giovani. Cerchiamo di spiegarci il perché dei loro comportamenti e allora parliamo di vuoto esistenziale, di mancanza di valori, di fragilità, di mancanza di volontà, di apatia e così via. Analisi puntuali e schematiche che, però, vengono fatte senza metterci prima in ascolto di tali situazioni e di chi le ha vissute, attuandole o subendole. Analizziamo ma non ascoltiamo, cataloghiamo ma non leggiamo dentro, puntiamo il dito ma non vediamo! Tutto ciò non toglie la gravità a ciascun atto compiuto: l’atto non va salvato, ma l’uomo che ha commesso quell’atto sì! Salvato, cioè accompagnato e curato. Cura non come “io sono forte e mi prendo cura di te che sei debole”, ma come affidamento reciproco che genera crescita per ambe le parti.

Cosa può fare la comunità civile o quella religiosa davanti a questi fatti?
Pensiamo che l’ascolto sia lo snodo fondamentale, una comunità civile ed una comunità religiosa che si pongono in ascolto vero della realtà giovanile. Una comunità che si metta in ascolto, così come ha fatto Gesù con i due discepoli di Emmaus: non li ha costretti a tornare indietro sulla “retta via”, ma si è affiancato a loro accompagnandoli fino ad Emmaus, fin dentro il fallimento! Da lì, li ha aiutati a ripartire, attraverso il dialogo, il confronto, la scoperta di senso, la proposta di una Parola efficace e autorevole! Autorevole, non autoritaria: una comunità che non si deve presentare come perfetta e garante di ogni verità e soluzione di fronte ad un giovane considerato spesso imperfetto e problematico, una comunità non giudice della vita del giovane ma che si affianchi in tutta la sua umanità.

Che cosa vi sentite di dire ai responsabili di questi gesti?
Nessun giudizio o luogo comune, nessuna parola ma il richiamo a tutti noi che ci consideriamo adulti, civili e maturi, a testimoniare loro la bellezza che è e la pienezza che dà una vita condivisa, rispettosa dell’altro e degli altri.

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