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“Hate Speech”, Adolescenti e la banalità del male

Silvia Rossetti

Le manifestazioni di intolleranza e odio, emerse in maniera preoccupante in questi giorni attorno alla figura della senatrice Liliana Segre, richiamano l’attenzione di media ed educatori. Negli ultimi tempi il clima sociale facilmente tende a surriscaldarsi e degenera nell’autocombustione soprattutto riguardo temi quali il razzismo, la diversità, la figura femminile, le personalità della cultura e dello spettacolo, i sentimenti di identità e appartenenza dei singoli individui. Per uno strano e perverso meccanismo la rabbia e la negatività collettive pare si convoglino verso un obiettivo specifico, un “capro espiatorio”, e attorno a esso creino pericolosi linciaggi verbali per lo più esercitati attraverso i socialmedia.
Il fenomeno riguarda anche e soprattutto gli adolescenti che sono tra i maggiori fruitori del web. Nel caso di questi ultimi gli “attacchi di odio” si allargano anche ai profili Instagram, Facebook e a tutta una pletora di social minori dove, per esempio, i ragazzi trovano uno spazio virtuale per scrivere e ricevere messaggi anonimi spesso forieri proprio di apprezzamenti molto pesanti e addirittura oltraggiosi.
A questa tendenza sociologi e specialisti del settore della comunicazione hanno dato un nome: Hate Speech, ovvero “incitamento all’odio”.
Negli Usa il fenomeno dell’hate speech è diventato terreno di approfondimento della giurisprudenza e, negli ultimissimi anni, anche in Europa. Molti degli odiatori in rete (haters) si appellano all’art. 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che invoca la libertà di espressione (free speech), calpestando però contemporaneamente, ad esempio, l’art. 14 della medesima Convenzione che sanziona la discriminazione.
L’hate speech genera negatività, può condurre a vere e proprie escalation di violenza verbale e mina in maniera allarmante il benessere psicofisico delle persone che vi sono esposte. Alcuni esperimenti condotti negli Usa hanno dimostrato, ad esempio, che programmi commerciali radiofonici con elevato livello di odio provocavano negli ascoltatori un aumento di stress e ansia, misurabili attraverso marcatori quali cortisolo e testosterone presenti nella saliva.
Nel mondo adolescenziale l’hate speech si declina in multiformi varianti come il bullismo e il cyberbullismo, le chat a tema e le echo chambers, vere e proprie “stanzette” virtuali dove i giovani si incontrano per autofomentarsi attorno a un tema, nella maggior parte dei casi, pretestuoso. Più dell’argomento ciò che attrae è la pratica dell’odio a ruota libera e senza freni: la stanza diventa rapidamente uno sconclusionato “sfogatoio” tossico.
Ma qual è l’origine di questo “male” e perché ha così facile presa negli adolescenti?
L’adolescenza di per sé è un’età di forti e contrastanti pulsioni. Odio e rabbia sono a volte strumenti che servono a operare una sorta di distacco chirurgico nei confronti della famiglia di origine, che gli psicologi definiscono “fisiologico” se, ovviamente, vissuto entro certi “parametri”. Quando le negatività sfuggono di mano è perché non trovano contenimento nelle figure genitoriali e nella società stessa, soprattutto non hanno modo di confrontarsi con una pedagogia alternativa e progettuale. Così i nostri giovani diventano facile preda di indottrinamenti estremistici e radicali, spesso pilotati anche a livello politico.
Soltanto qualche mese la procura di Siena ha avviato un’inchiesta – dopo la denuncia di una mamma – proprio su una chat di giovanissimi dove si incitava all’odio contro ebrei, disabili, migranti e dove venivano riversati contenuti pedopornografici e apologetici nei confronti di nazifascismo. Un gran miscuglio, insomma, a disposizione di fruitori di età compresa fra i 13 e i 19 anni, residenti in tutta Italia. Uno dei genitori dei giovani incriminati ha dichiarato di aver faticato per far capire al figlio la gravità di quella chat. “Mi sono reso conto che lui ha vissuto tutto come un gioco, non ha percepito l’atrocità di quelle immagini e di quei video”.
In effetti l’episodio in sé relativamente circoscritto rispecchia una società che non sa più raccontare e riconoscere il male.

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