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Il Compito del Cristiano è in cielo e sulla terra

ZENIT / di Francesco Follo

Ascensione – Anno A – 28 maggio 2017

Rito Romano

At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

Rito Ambrosiano

AT 1,6-13a; Sal 46; Ef 4,7-13; Lc 24,36b-53

1) Una festa non facile.

Quaranta giorni fa, abbiamo celebrato il fatto della Pasqua: la risurrezione di Cristo è stata per noi motivo di grande gioia. Oggi la liturgia ci propone come causa di gioia la  Sua ascensione al cielo: “Oggi, infatti, ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre” (San Leone Magno, Disc. 2 sull’Ascensione, 1, 4; PL 54, 397-399).

La festa dell’Ascensione non è riducibile ad una strana festa in cui ci à chiesto di essere contenti perché Cristo si allontana da noi andandosene in cielo. Qual è dunque il significato della “ascesa” al cielo di Cristo risorto?  “Significa credere che in Cristo l’uomo, l’essere uomo al quale noi tutti abbiamo parte, è entrato, in modo inaudito e nuovo, nell’intimità di Dio. Significa che l’uomo trova per sempre spazio in Dio. Il cielo non è un luogo sopra le stelle, è qualcosa di molto più ardito e più grande: è il trovar posto dell’uomo in Dio e questo ha il suo fondamento nella compenetrazione di umanità e divinità nell’uomo Gesù crocifisso ed elevato. Cristo, l’uomo che è in Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l’uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo ‘cielo’, poiché il cielo non è uno spazio, ma una persona, la persona di colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti” (Joseph Ratzinger, Predicazione e Dogma, Brescia 1983).

In effetti, la frase finale del vangelo di oggi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento del tempo” (Mt, 28, 20), non contiene parole di qualcuno che lascia i suoi soli sulla terra. Queste ultime parole di Gesù non sono un addio, ma spiegano che Lui è il Signore vivo di una vita senza limite e che, con la sua parola e il suo Amore consolatore, ogni giorno è presentealla sua Chiesa, suo mistico Corpo, fino al compimento del tempo.

Gesù, il Figlio di Dio entrato nella storia per essere il “Dio con noi”, realizza in pieno la sua missione nel dono totale di sé. Morendo e risorgendo,  Lui ha manifestato che  l’Amore si rivela infinito quando si annienta, quando completamente dona la vita. L’Ascensione è il compimento del mistero dell’Amore di Dio: morendo Gesù annulla ogni limite per essere il “Dio con noi”. Lui è con noi per essere l’Amore che redime il nostro amore e rende il nostro cuore capace di essere dimora dell’Amore.

Dunque, se da una parte l’Ascensione non è una festa facile da capire, perché fa sorgere spontaneamente la domanda: “Perché essere in festa se l’Amato se ne va via?”. D’altra parte, l’Ascensione è una festa chiara, perché questa festa “non è un percorso cosmico geografico ma è la navigazione spaziale del cuore che ci conduce dalla chiusura in noi stessi all’amore che abbraccia l’universo” (Benedetto XVI). L’Ascensione è la festa del nostro destino che ha come destinazione il cielo amoroso di Dio, che eleva la terra della nostra umanità.

E’ una festa che ci mostra che il cielo e la terra, il possesso e il sacrifico, la pace e la fatica non sono in contrasto. Non basta che la nostra esistenza sia interamente e sinceramente rivolta al cielo, poi alla terra e poi di nuovo al cielo. La nostra condotta in cielo deve completarsi a poco a poco, in mondo tale che la nostra condotta sulla terra riveli quella del cielo.  La nostra condotta sulla terra deve a poco a poco  elevarsi a preghiera di desiderio e questa preghiera di desiderio si chiarisce nell’adorazione. Non basta che la nostra vita sia interamente e sinceramente pace, poi fatica e poi di nuovo pace: la nostra pace deve essere come la forza raccolta per la fatica e la nostra fatica come uno spirare di pace.

2) Ascensione e missione.

Questo destino di pace perfetta nell’amore si intreccia con la nostra missione: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

L’Ascensione di Cristo, che San Matteo ci racconta alla fine del suo vangelo, è un grande inizio. I discepoli videro Gesù come Lui è, come nella trasfigurazione. E Lo adorano, prostrandosi in segno di consegna e di abbandono totale. Su questo rapporto di amore accolgono il “comando” di andare per tutto il mondo poggiano le prospettive universali, insegnando e battezzando. Battezzare non vuol dire versare un po’ di acqua sul capo di una persona, ma immergerla in Dio, dentro il Dio della Vita e, poi, insegnare a osservare ciò che Lui comanda. Ma che cosa comanda Cristo? L’amore. Il suo comando è di immergere la persona umana e insegnarle ad amare, lasciandosi amare e donando amore.

Per compiere missione di carità secondo il cuore di Cristo il quale anche a noi chiede:

“Andate”, cioè superate ogni barriera culturale e religiosa;

“Fate discepoli tutti i popoli”, cioè formiamo un “nuovo popolo di popoli”;

“Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, cioè portiamo al mondo intero la la rivelazione di questo nome divino di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo;

“Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” e, quindi, annunciando agli uomini tutta la rivelazione di Dio, che porta con sé anche la stessa rivelazione dell’uomo. Si può intuire ciò che l’uomo è per davvero solo alla luce questa rivelazione di Dio: solo nel mistero del Verbo incarnatosi “illumina veramente” il mistero dell’uomo (Gaudium et spes, 22)

Queste indicazioni sarebbero impraticabili senza Cristo che anche a noi dice: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Lui è presente accanto a noi e in noi, sempre. Noi, cristiani,  non confidiamo in noi stessi, nelle proprie capacità, ma nella presenza del Signore.

Con Cristo, in Cristo e per Cristo noi diventiamo testimoni affidabili in tutto il mondo. Non ci sono confini, luoghi vietati, popoli o uomini ai quali non si possa e non debba testimoniare Cristo. Lui è il Signore di tutto e di tutti, e perciò deve essere annunciato a tutti e dappertutto.

Dire che Gesù è il «Signore di tutto» significa affermare, in altre parole, che Egli dà senso a tutte le cose. «Andate e fate discepoli»: la missione suppone un incarico. Non si annuncia Gesù a nome proprio, tanto meno si annunciano pensieri propri, ma soltanto “tutto ciò che Egli ha comandato”. Il discepolo deve annunciare nella più assoluta fedeltà e il suo annuncio deve nascere da un ascolto.

La missione esige una partenza: “andate”. Il discepolo non aspetta che la gente del mondo si avvicini: è lui che va incontro a loro alla gente. “Fate discepole tutte le genti”: l’espressione è carica di tutto il significato che “discepolo” ha nel Vangelo. Non si tratta semplicemente di offrire un messaggio, ma di instaurare una relazione di comunione. Il discepolo si lega alla persona del Maestro e si impegna a condividere il suo progetto di vita. “Sarò con voi fino alla fine del tempo”: è questa la grande promessa, che dà al discepolo la forza di svolgere la sua missione, andando in ogni luogo del mondo e predicando il Vangelo.

In effetti, Cristo non dice: “Predicate la morale della saggezza greca”. Non dice, per esempio, di spiegare l’Etica di Aristotele, non solo perché gli Apostoli erano poco istruiti, ma perché ogni sapienza diventa poca cosa quando una persona si mette alla scuola di Cristo, che guida con amore le sue pecorelle che docili lo seguono verso i pascoli eterni della verità e della gioia. Quello che Cristo esige dagli uomini per poterli fare entrare nel Regno di Dio non è un certificato di studi, né un attestato di carriera ben fatta. Lui chiede un atto molto più semplice eradical: la conversione del cuore e la rinascita nella fede e nel battesimo.

“Che crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi non crederà, sarà condannato”. Prima di tutto “credere”, perché il crede è l’atto fondamentale della vita cristiana. Con il credere, con l’atto di fede, la persona umana scegli con piena libertà il Regno di Dio che le è offerto dal magistero della Chiesa. Con l’atto di fede quindi il cristiano accetta tutte le verità da credere: tutto quanto Cristo ci ha insegnato su Dio e sull’uomo, sul peccato e sulle cose ultime, che sono la morte, il giudizio e il Paradiso.

Credere allora è vedere la propria vita unicamente nella luce di queste verità accettando il giogo “soave e leggero” della legge dell’amore verso Dio e verso il prossimo,

Infine, credere è vivere con la mente e con il cuore, con il pensiero e con l’azione nella realtà della vita divina.

In ciò ci sono di esempio le vergini consacrate che con la loro vita totalmente donata a Cristo “predicano” la verità amorosa e il vero amore redentivo di Dio. Queste donne testimoniano che la vita cristiana è legata all’Ascensione, perché la nostra vita si realizza andando verso il cielo e dipende dalla fedeltà alle promesse fatte nel Battesimo e rinnovate nella consacrazione.

Pur nella fragilità umana e certe che Dio è forte nei deboli, le vergini consacrate accompagno lo Gesù-Sposo nella sua ascensione, gioiscono della sua glorificazione vivono anticipatamente la dimensione del Paradiso e ci ricordano che la festa dell’Ascensione del Signore ò la festa liturgica del Paradiso, che si apre all’umanità con l’ingresso solenne di Cristo in cielo, alla destra del Padre. Nel suo addio, Gesù lasciò agli apostoli (e a noi) la sua verità e la sua potenza, perché la sua ascensione non fu una partenza ma una intensificazione della sua presenza fino ai limiti estremi dello spazio e dl tempo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).

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Lettura patristica

Sant’Agostino d’Ippona

Discorso sull’Ascensione del Signore, ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)

Nessuno è mai salito al cielo,  fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo.
Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore.
Ascoltiamo l’apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso.
Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»(Mt 25, 35).
Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l’amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo, che è in cielo (cfr. Gv 3, 13).
Questa affermazione fu pronunciata per sottolineare l’unità tra lui nostro capo e noi suo corpo. Quindi nessuno può compiere un simile atto se non Cristo, perché anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell’uomo per noi, e noi siamo figli di Dio per lui.
Così si esprime l’Apostolo parlando di questa realtà: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12). L’Apostolo non dice: «Così Cristo», ma sottolinea: «Così anche Cristo». Cristo dunque ha molte membra, ma un solo corpo.
Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l’unità del corpo non sia separata dal capo.

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.

Sara De Simplicio: