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Sui bambini Down abortiti in Italia dati non disponibili

Di Giovanni Pasqualin Traversa
Anziché sottolineare ciò che non sono, far emergere chi sono e quanto possono dare. Quando si parla di bambini Down, nel nostro Paese si sconta la mancanza di quella corretta informazione-comunicazione che potrebbe abbattere il muro di pregiudizi e timori che circonda un universo di persone (38mila, secondo l’Associazione italiana persone Down – www.aipd.it) caratterizzato, sì, da difficoltà oggettive, ma anche da potenzialità troppo spesso taciute. Ne sono convinti Filippo Maria Boscia, presidente nazionale Associazione medici cattolici italiani (Amci – www.amci.org), e Anna Contardi, coordinatrice nazionale Aipd. Con loro ci siamo chiesti se in Italia nascano ancora bambini con Trisomia 21, mentre non si è spenta l’eco dell’incredibile tweet del biologo britannico Richard Dawkins sulla presunta “immoralità” di far venire al mondo un feto con sindrome di Down, e sono state diffuse le notizie del divieto francese allo spot “Dear future mom”, e del neonato Gammy, lasciato da una coppia australiana alla madre thailandese surrogata perché affetto da Trisomia 21.
Numeri incerti. Difficile avere numeri precisi sui bimbi nati ogni anno in Italia con sindrome Down (in media 1 ogni 1.200) e sui feti con diagnosi abortiti. Secondo Benedetto Rocchi, professore di economia dell’Università di Firenze che ha elaborato dati 2011 (relativi al 2009) dell’Istituto superiore di sanità, dell’Istat e dell’International Clearinghouse for Birth Defects Surveillance, i feti abortiti nel 2009 sarebbero circa 1.100. Un “dato verosimile” per Filippo Maria Boscia, che è anche professore di fisiopatologia della riproduzione umana all’Università di Bari e direttore del Dipartimento per la salute della donna e la tutela del nascituro presso la Asl locale. In Italia “oggi nascono pochissimi bambini Down – ci spiega – anche grazie alle attuali possibilità di diagnosi prenatale più precoce e meno invasiva di villocentesi e amniocentesi”. Si tratta di “marcatori ecografici che già entro il terzo mese possono predire modificazioni somatiche fetali”, e di “test di ricerca nel sangue materno di cellule fetali (Genoma test e Harmony test) che isolando queste cellule possono esprimere anch’essi entro il terzo mese un giudizio di atipia genetica sicuro al 90%”.
Cultura dello scarto. Secondo Boscia, la scelta di proseguire o meno la gravidanza dipende in gran parte dalla comunicazione “non sempre corretta e sensibile offerta alla coppia”, e dalla predisposizione di quest’ultima “alla difesa della vita”. A giocare contro la vita è anche “l’orientamento della magistratura”, aggiunge, riferendosi alla sentenza con cui la Corte di cassazione ha stabilito nel 2012 un risarcimento di un milione di euro a favore di una giovane nata con sindrome di Down, condannando il medico per non aver eseguito una diagnosi adeguata. “La ‘cultura dello scarto’ che pretende di proclamare un presunto diritto al figlio sano – conclude il presidente Amci – ha introdotto anche nel nostro Paese forme di vera e propria eugenetica” contro le quali occorre un “serio impegno formativo-culturale”.
Inversione di tendenza. Concorda sull’importanza di una corretta comunicazione Anna Contardi, ma non sulla diminuzione delle nascite, “inquadrabile nel calo generalizzato delle nascite nel nostro Paese”. “Rispetto alle percentuali di aborti vicine al 100% di quindici anni fa, oggi sfioriamo il 90%, dato ancora alto ma che indubbiamente rivela un’inversione di tendenza”, ci dice dal suo osservatorio: 33 anni di attività incontrando migliaia di famiglie e seguendo centinaia di coppie durante la gravidanza. Il nuovo trend è legato “al miglioramento dell’informazione-formazione su cui tuttavia bisogna ancora lavorare molto”. Non a caso l’Aipd ne ha fatto un suo cavallo di battaglia: “Nelle diagnosi di sindrome di Down ai futuri genitori si enfatizza spesso ciò che il bambino non è (‘non è normale’), e non si evidenzia invece quello che è e quanto può dare, creando così un immaginario falsato, mentre una comunicazione corretta, completa e positiva può fare la differenza”.
Storie belle. Un impegno che l’Aipd prosegue anche dopo la nascita nei confronti di famiglie, operatori scolastici e socio-sanitari, mentre ai ragazzi offre percorsi di accompagnamento/educazione all’autonomia come imparare a muoversi da soli in città usando i mezzi pubblici, a gestire piccole somme di denaro, a relazionarsi con le persone. Per sentirsi adulti e magari assumere decisioni come quella di Mauro e Marta, che lo scorso 6 luglio si sono sposati e vivranno con degli amici e la supervisione di alcuni educatori, svolgendo un lavoro con mansioni semplici. Che la comunicazione sia strategica lo dimostra anche il successo di “Hotel 6 Stelle”, docufilm sul tirocinio di sei ragazzi in un albergo di Roma, realizzato da Raitre con la collaborazione dell’Aipd, dopo il quale l’associazione è stata contattata da 45 aziende per inserimenti lavorativi. È al grande pubblico che occorre rivolgersi, e un docureality vale più di mille conferenze di esperti. Allora perché, anziché perdersi in sterili dissertazioni su una presunta qualità e/o dignità della vita, non raccontare storie belle che possano creare un immaginario positivo e promuovere una cultura di accoglienza e di speranza?
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