Il colore prima del blu


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Per leggere le precedenti puntate clicca su:

– Il colore prima del blu – Puntata 1

– Il colore prima del blu – Puntata 2

– Il colore prima del blu – Puntata 3

– Il colore prima del blu – Puntata 4

– Il colore prima del blu – Puntata 5

– Il colore prima del blu – Puntata 6

Le sbarre alle finestre sono il limite della libertà. Proibiscono un sogno: trovare la felicità al di là di questa vita. Mia madre non ha neanche questo desiderio. Quelle sbarre non la riguardano. L’edificio è lungo e stretto. Non ci sono giardini. La fortuna qui è capitare nelle stanze che si affacciano sul mare. Se non guardi troppo in basso, hai l’illusione di un viaggio in transatlantico verso nuove terre. Lo dico a mia madre, ma non sembra interessata. Al ristorante la domenica si lavora di più, così la direzione della struttura sanitaria mi ha concesso la possibilità di venire di lunedì. I corridoi sono stretti; odorano di piscio e varechina. Un uomo rasato a zero, in canottiera bianca e boxer, scalzo, mi urla contro e poi inizia a correre verso di me. Non riesco ad aprire la porta che dà l’accesso alle scale. Il cuore mi batte forte. L’uomo arriva a due metri da me. Si ferma, mi guarda e con dolcezza dice: ‹‹Per farti aprire la porta devi suonare il campanello.››
Qui, il campanello si suona per uscire.

Oggi è venuta una ragazza al ristorante. È venuta con i suoi genitori. Parlano con una pronuncia strana. Non sono italiani, credo. Vorrei chiedere al signor Alfredo se li conosce, se sa di dove sono, ma mi vergogno. In realtà questo è il terzo giorno che vengono a cena, ma è oggi che mi ha incuriosito. La ragazza e io ci siamo guardati negli occhi. È stato un attimo perché poi abbiamo abbassato entrambi lo sguardo. Teneva le gambe incrociate mentre stava dritta avanti a me. Ha lasciato scivolare dal piede le sue infradito fucsia e nere. Le sanguinava un dito.Mi ha chiesto se avevo qualcosa per medicarla. Sono tornato a fissarla negli occhi e le ho detto: ‹‹Sì››. Il mio sguardo si è fermato nuovamente sui suoi piedi.
‹‹Allora? Ce l’hai?›› mi ha chiesto nuovamente.
‹‹Torno subito,›› le ho risposto.  

Marta ha preparato la stanza per me. Era del figlio. Domani porterò le mie cose qui. Il figlio di Marta e del signor Alfredo se ne è andato di casa il giorno che ha compiuto diciotto anni. Me lo ha detto lei. Con le mani toglieva le pieghe del lenzuolo sul letto e con le parole le pieghe dei suoi ricordi tristi. Non ha mai alzato lo sguardo per parlarmi. Era concentrata sui movimenti, usava un tono distaccato, ma ho notato il fremito della sua voce. Io ho ascoltato senza dire nulla. Le ho chiesto solo il nome, ma lo ha pronunciato sottovoce e veloce, così non l’ho capito e non ho avuto il coraggio di farmelo ripetere.  

La finestra della mia nuova camera dà sul mare, fisso l’orizzonte sperando di incrociare lo sguardo di mia madre. Chissà invece se, da dove alloggia la ragazza dalle infradito fucsia, si può guardare il mare. I suoi grandi occhi neri mi creano turbamento. È un’emozione nuova, diversa da quella che mi provocano le tette di Emma la fornaia. Ho una fitta allo stomaco, ora, e sento lo stimolo della fame. Scendo in cucina attraverso la porta di servizio. Mi preparo un panino con il salame. Sono le due di notte. Mi verso un po’ di birra alla spina in un boccale. Non la bevo mai. L’ultima volta che l’ho provata ero in compagnia di mio padre. Me la fece assaggiare dal suo bicchiere. Mi disse che ero troppo piccolo per berla e che non dovevo raccontarlo alla mamma. Poi con un tovagliolo mi pulì la bocca dalla schiuma.

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