Il colore prima del blu


Il romanzo “Il colore prima del blu”
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Per leggere le precedenti puntate clicca su:

– Il colore prima del blu – Puntata 1

– Il colore prima del blu – Puntata 2

– Il colore prima del blu – Puntata 3

– Il colore prima del blu – Puntata 4

– Il colore prima del blu – Puntata 5

‹‹Non puoi stare da solo in casa,›› mi dice l’assistente sociale.

La porta del ristorante è ancora chiusa. Siamo seduti al tavolo vicino al bar. Sorseggia un frullato che le ho preparato. Io non bevo nulla. Ho le braccia conserte e mi dondolo sulla sedia. Alfredo ci lascia soli. Osservo un quadro in fondo alla parete. Immersa nel grigio di una tempesta, una barca a vela affoga sotto un’onda. Sullo sfondo una nuvola più chiara delle altre si staglia bassa. Ha una forma che ricorda vagamente un’altra barca. Appare immobile e indifferente alla sciagura che avviene di fronte a essa. Non è la solitudine che mi fa paura e neanche l’incertezza del futuro. Tutti siamo un po’ soli come barche in mezzo al mare e il futuro è semplicemente la promessa di altro mare oltre l’orizzonte. Ciò che mi preoccupa è un viaggio senza un porto dover poter tornare.

‹‹Non hai parenti stretti qui in paese. Il Tribunale ha deciso di affidarti ad Alfredo e sua moglie.››

Una cicca di sigaretta di Alfredo è ancora fumante sul posacenere del tavolo. L’assistente sociale la guarda schifata. La prendo e la spengo per bene. Alzo la testa, guardo oltre l’assistente sociale, che continua a parlarmi. Alfredo è dietro la porta della cucina e ci osserva dal vetro. Si tocca i baffi e fissa un punto preciso del nostro tavolo. Resto in attesa dell’ultimo sorso di frullato. Non dico nulla. Mi alzo. Per uscire fuori passo davanti al quadro. Cerco la barca sull’orizzonte, ma si perde tra le nuvole e non riesco più a trovarla. Ci sono dettagli che si vedono più da lontano che da vicino. Apro la porta del ristorante. I colori della strada sono appiattiti dalla luce intensa del sole estivo. I miei occhi fanno fatica a liberarsi della penombra del locale. Mi rendo conto solo ora di aver perso anche mia madre.

 Decido di fare un giro in bici. Non mi dirigo verso le vie del centro, né verso il mare. Non sto andando da nessuna parte. Piuttosto mi sto allontanando. Allontanarsi è l’azione giusta per chi ha visto crollare il suo passato e non ha nulla su cui appoggiarsi. Ci si sente come quando il torrente, nell’alluvione di cinquant’anni fa, si portò via le case: i vecchi del paese raccontano che ogni pezzo di passato rinvenuto tra le macerie era scivoloso e inafferrabile.

Arrivo fin sotto casa di Chiaretta, una vecchia signora che vive da sola appena fuori il centro abitato. Sono anni che non scende in paese. Ci sono tante storie sul suo conto, ma il Signor Alfredo, quando se ne parla, dice che sono tutte inventate: «È sola e malata. Punto!»

Arrivano tre ragazzini con caschi protettivi in testa e torce nelle mani. Passando sotto la finestra di Chiaretta le urlano frasi offensive. Appena si accorgono di me smettono. Dicono che stanno andando a esplorare una delle case abbandonate che si trovano per le colline. Sono vecchi insediamenti agricoli. È un gioco che si fa molto spesso all’insaputa dei genitori. Mi chiedono di unirmi a loro. Rifiuto l’invito. Sono grande ormai per questi passatempi estivi, ma li seguo a distanza. In fondo, fino a un paio di anni fa, ci andavo anche io. Prendono una stradina acciottolata che sale verso una casa colonica. Dalla strada principale non si vede, ma è una meta classica per questo tipo di avventure. È un passato che si lascia depredare, ma del suo privato non restano che poche schegge.

 Li osservo che si fanno la scaletta con le mani, e si intrufolano attraverso una finestra. I due che sono entrati per primi sollevano l’altro rimasto a terra.
Stanno per scomparire nel buio della stanza, faccio uno scatto con la bici per avvicinarmi e urlo: ‹‹Aspettatemi! Vengo anche io!››
Mi tirano dentro. Ragnatele si appiccicano alla maglia umida. Me le tengo addosso. I piedi appoggiano su una mattonella traballante. I nostri passi spolverano il pavimento rosso e lasciano mute impronte. I segreti, di solito, sono nei sotterranei o nelle soffitte. Non sappiamo bene cosa stiamo cercando. Un tesoro nascosto, credo, perché i tesori sono sempre nascosti agli occhi della gente. Per trovarli di solito si parte da una mappa, da un indizio, da una leggenda. Noi non abbiamo nulla di tutto questo. Ciò che ci mette alla ricerca è il gusto dell’ignoto, ma in realtà credo che solo la necessità di soddisfare il nostro desiderio di conoscenza può giustificare un’esplorazione. Almeno questo è quello che ho imparato da mio padre. Nella soffitta c’è odore di marcio. Copro il naso e la bocca con un fazzoletto prestato da uno dei miei compagni. È buio e accendono le torce. Io non ce l’ho e condivido la loro luce. La luce non può essere esclusiva: una volta accesa è per tutti. Tengo la maglia di uno di loro e mi fido dei suoi passi. Troviamo un vecchio baule. Appare vuoto, ma c’è un doppiofondo che non riusciamo a tirar via. Afferro un bastone di legno, una vecchia scopa. Picchio contro il coperchio e si forma una crepa. Insisto finché gli altri con le mani tirano via i pezzi di legno rotti. Vecchi vestiti e una Bibbia: è tutto quello che nascondeva gelosamente lo scrigno. Mi accorgo di un lucernario sul soffitto, coperto da stoffe e cartone. Tiro via tutto e raggi di sole investono la stanza che improvvisamente perde la sua magia. Apro la finestrella e salgo sul tetto. Scopro che il mare è più vicino di quanto pensassi e che il paesino è schiacciato proprio sotto di noi.
‹‹Andiamo giù nello scantinato! Vieni?›› mi urlano da dentro, ma le campane suonano i rintocchi del mezzogiorno. Devo tornare al ristorante. Li lascio alle loro ricerche sperando che divideranno il tesoro anche con me. Ma forse il tesoro vero è aver sognato per un paio d’ore una vita avventurosa.

 

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