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Di Don Adriano Bianco

La santità è la meta della vita cristiana per tutti e quando la Chiesa riconosce che l’esistenza di un uomo o una donna è stata esemplare nell’esercizio delle virtù e nella sequela al Signore è una festa. Vale per tutti i santi dai più sconosciuti ai più famosi. Il fatto, però, che in quest’anno, alle canonizzazioni di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, si aggiunga, il prossimo 19 ottobre, anche la celebrazione della beatificazione di Paolo VI rende questo 2014 un vero “anno santo” che non può che evocare non solo sentimenti di gioia, ma anche di fede e consolazione.
La santità, infatti, di coloro che hanno ruoli di guida nella comunità è forse la più difficile da accertare e da proporre. Si tratta di persone le cui scelte umane e spirituali s’intrecciano inevitabilmente con responsabilità storiche enormi che toccano, come nel caso dei successori di Pietro, il destino del mondo intero. Che si affermi, quindi, che tre Papi del Novecento (il secolo delle guerre mondiali, delle ideologie e dei genocidi) sono santi o beati è veramente un segno di speranza per tutta l’umanità. Significa dire che, nonostante il male, non siamo stati soli.

Che è stato possibile, anche nel mondo d’oggi, toccare e conoscere il bene che si è reso visibile nella testimonianza di uomini che l’hanno perseguito attraversando con coraggio passaggi storici spesso drammatici e vivendo in modo eroico il Vangelo. Sono testimoni che forse abbiamo incontrato nella vita, ma che oggi siamo chiamati a riscoprire sotto una luce che ci aiuti a ricomprenderci come comunità dei credenti in cammino verso la santità.
Oggi tocca a Paolo VI che, da beato, andrà a completare quell’icona di santità della Chiesa contemporanea accanto a Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. “Fu una persona straordinariamente innamorata di Gesù e della Chiesa”, ha detto il vescovo di Brescia, monsignor Luciano Monari. Fu il Papa della più assidua e penetrante ricerca di dialogo tra Cristo e la modernità. Ma come possiamo raccogliere al meglio la sua eredità in vista della sua prossima beatificazione? Incontrandoci come Chiesa nel nome di Paolo VI.

Lo ha detto Papa Francesco lo scorso anno, salutando i 5.000 pellegrini bresciani: “Incontrarci nel nome di Paolo VI ci fa bene”.
Un luogo reale che ci potrebbe aiutare a vivere questo incontro ideale è il monumento a Paolo VI, che la Chiesa bresciana ha voluto erigere nel 1984 nel Duomo nuovo di Brescia e che fu realizzato da Lello Scorzelli. Lo scultore ha concepito l’opera rifacendosi alla grande suggestione provocatagli dall’apertura della porta santa in Vaticano la notte di Natale del 1974, in occasione dell’inizio dell’Anno Santo. Scorzelli ha fissato, infatti, nel bronzo la figura di Paolo VI inginocchiato sulla soglia della porta, ricurvo, aggrappato alla Croce pastorale, unico elemento verticale che si erge al di sopra di ogni cosa e ha completato questa figura che aveva colpito la sua sensibilità con alcune scene simboliche, affidate ai rilievi delle otto formelle e dei due pomoli della porta, che ripercorrono idealmente il pontificato di Papa Montini, dalla scelta del nome – Paolo, l’apostolo delle genti – all’azione pastorale, dal Concilio Vaticano II ai grandi incontri ecumenici, dai solenni pronunciamenti dottrinali alle grandi ferite sofferte a causa dell’avanzare della mentalità secolarizzata.
Anzitutto ci fa riscoprire come Chiesa del Concilio e del Concilio di Paolo VI. Quello che è stato definito “lo spirito del Concilio” ha pervaso nel profondo Paolo VI, come ha segnato nel profondo il cammino delle nostre comunità negli ultimi 50 anni. Ogni Chiesa locale in Italia ha potuto prendere parte a quel cammino di “aggiornamento”, di cui Paolo VI è stato esperto quanto a volte sofferto “timoniere”.

Non a caso, nel monumento della cattedrale di Brescia, una delle formelle bronzee è dedicata alla chiusura del Concilio, quasi a evidenziare plasticamente il lascito particolare di Paolo VI: il nostro essere Chiesa sia essere Chiesa del Vaticano II.
Ma oltre che Chiesa del Concilio, sempre sull’esempio di Paolo VI, siamo chiamati a essere la Chiesa del dialogo. A questo particolare impegno rimanda un’altra formella del monumento, quella che rappresenta l’incontro di Paolo VI con il patriarca ortodosso Atenagora.

Un gesto che più di mille discorsi ha reso evidente su quali vie Paolo VI ha voluto far camminare la Chiesa uscita dalla Pentecoste conciliare. Chiesa del dialogo ad intra e ad extra come l’ha tradotto la lezione montiniana ancora del tutto valida e attuale
Infine, la Chiesa della bellezza. Della bellezza in che senso? È risaputo che uno dei tratti caratteristici di Paolo VI è stata la sua sensibilità artistica, guidata dall’intenzione di fare dell’arte un ponte per far dialogare la Chiesa con il mondo e il mondo con la Chiesa. La sosta ideale dinanzi al monumento paolino in cattedrale a Brescia potrebbe, allora, trovare motivo di riflessione facendo propria la lezione della bellezza che il monumento in se stesso trasmette. Una bellezza che altro non dovrebbe essere se non quella della “sposa dell’Agnello” (Ap 21,9), “tutta gloriosa, senza macchia né ruga” (Ef 5,27). Un amore alla bellezza poi che, lungi da ogni vano compiacimento estetico, altro non sarebbe se non amore per l’uomo, sul quale si riflette un raggio della bellezza originaria del Creatore.
Concilio, dialogo, bellezza. In questo trinomio potremmo sintetizzare gli elementi di un ideale ritratto di Paolo VI, ma anche del ritratto di una Chiesa riunita “nel nome di Paolo VI”. Una Chiesa che da incontro nuovo con questo altro Papa “santo” ritrova lo slancio della testimonianza e dell’impegno a costruire la civiltà dell’amore in “questa stupenda e drammatica scena temporale”.

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