Di Don Marco Pozza

Quando andò a toccare il Tempio, fu chiaro a tutti ch’era andato a toccare fili che non doveva toccare. Erano fili ad altissima tensione quelli. Lui lo sapeva: quel Tempio l’aveva amato da bambino, vi era salito sin dalla tenera età, pianse al pensiero che quelle belle pietre venissero un giorno devastate. Tutto gli stette a cuore, ma quel loro modo di usare Dio, coi suoi misteri, a scopo di lucro fu la ragione ultima del suo sfuriare: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato” (Gv 2,13-25). Una frusta di cordicelle! Che la Città-Santa tutta capisse cosa abitava nella testa di Dio: alle pietre scure del Tempio, Dio preferiva il rischio di uno sguardo-in-più. La compagnia della carne in stato di sofferenza-avanzata. Chi, pur basito, l’ascoltò, tentò da subito d’arginare quella fiumana di passione: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” gli dissero i Giudei. Apriti cielo! Si aprì il Cielo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farà risorgere”. Detto così, a scanso di equivoci: perchè fosse chiaro a tutti che Dio non peccava d’autostima. S’accorgeranno più avanti – “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” (Gv 12,19) – che il mondo intero è disposto a farsi da parte quando incrocia un uomo che sa dove andare. Mica afferrarono quello che fiutò il geniaccio di Walt-Disney: “Potete immaginare, creare e costruire il luogo più meraviglioso di tutta la terra, ma ci vorranno sempre persone perchè il sogno diventi realtà”.

Il Tempio è bello quand’è incrocio di sguardi: dall’alto al basso, dal basso all’alto, faccia a faccia.

In caso contrario è un bazar all’orientale, in stato d’agitazione perpetua. Ciò che produsse quella sfuriata, fu chiaro a tutti un’ora dopo: tubare di colombe, tintinnare di monete, mormorio di giaculatorie. Capita sempre così: più facile pregare un Dio prigioniero di monete di un Dio che ha fatto dell’uomo il suo tabernacolo, il suo Tempio-vivente. Un Dio di pietra fa stare tutti tranquilli, un Dio di carne mette in allerta il mondo intero.

Detto, fatto: siccome loro non capirono, non vollero credergli davvero, Lui si diede da fare. Si ostinò a mettere mano alla progettazione del nuovo Tempio. Un centinaio di metri oltre ciò che resta della maestosità del Tempio – perchè la profezia della sua distruzione s’avverò com’è vero che esiste Dio – s’allarga lo spazio del Cenacolo: luogo d’intimità, memoria dell’ultima cena, promemoria del fatto che chi ha Dio dalla sua parte sarà sempre in maggioranza. Inizia qui la prova del nove, quella con la quale mostrerà d’avere ragione: “Distruggetemi e in tre giorni vi riapparirò. Ne metterò in piedi uno ancor più bello!”. Ciò che quelle pietre raccontano al pellegrino di passaggio, è l’inedito del mistero cristiano: Dio abita nell’uomo, cosicché profanare l’uomo sarà il più alto sacrilegio perpetrato nei confronti di Dio. Nulla, dopo quell’annuncio di caduta delle pietre, avrà più valore della vita di un uomo. Per questo, quando gli chiesero un segno, non ne volle dare:

Dio non è mai chiamato a giustificarsi.

Fece di più: mise in gioco se stesso, giocò se medesimo come segno più autorevole. Come tratto distintivo del fatto che Lui non era uno dei tanti ciarlatani di passaggio, di quelli che si abbeverano di un applauso: “Ma non si fidava di loro perchè conosceva tutti”.

Sabato prossimo, nella rubrica “Le ragioni della speranza” (Rai1, 16.15), i pellegrini ci presteranno lo sguardo per viaggiare da Betlemme a Gerusalemme. Tra la città di Betlemme e quella di Gerusalemme c’è un muro a fare da divisorio: il muro della vergogna, che è sempre muro di pianti e lacrime. Pare un insulto al buon senso che nella terra dell’Uomo nato per fare di Se stesso un ponte tra Cielo e Terra, oggi l’uomo innalzi mura. Non è mai stato facile capire il grado d’imbarazzo dei Vangeli. Sarà anche per questo che un pellegrino si reca in Terra-Santa: per vedere coi suoi occhi quanta fatica ha fatto Cristo a mettere un po’ in ordine le idee circa suo Padre e i loro sogni.
Anche le loro aspettative.

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