Non si fermano in Tibet le auto immolazioni contro l’occupazione cinese, per chiedere il ritorno del Dalai Lama e una vera libertà religiosa. Due monaci di 20 e 23 anni, del monastero di Ngaba, nella provincia dello Sichuan e una donna di 23 anni si sono dati fuoco nei giorni scorsi, così come ha fatto, quasi contemporaneamente, una giovane madre di 20 anni, nei pressi del monastero Jonang a Rangtang. Alistair Currie, portavoce del gruppo inglese Free Tibet, ha commentato: “Questa morte dimostra che neanche tutta la forza del governo cinese può impedire al popolo di protestare. L’auto-immolazione è infatti una protesta, non un suicidio, e fino a che le richieste del popolo non saranno ascoltate ogni forma di protesta andrà avanti”.

Dal 2009, 119 auto immolazioni. Le autorità cinesi hanno aumentato i controlli sul territorio tibetano, al fine di prevenire questo tipo di protesta, bloccando le comunicazioni con l’esterno. Ciò nonostante, il numero delle auto immolazioni si incrementa: è di 119 da quando sono iniziate, nel 2009. Le autorità religiose tibetane cercano di dissuadere i giovani monaci dal praticare questi atti, drammatici e disperati, come ad esempio ha sottolineato ad Asia News il lama geshe Gedun Tharchin: “I monaci buddisti che si sono auto immolati hanno una fede molto forte. Ma non possiamo sapere quali siano i percorsi che li hanno portati a gesti così estremi”. Il lama ha aggiunto: “Per la nostra religione ogni vita è sacra, e uccidersi è un danno enorme per l’anima. Ma chi vive in Tibet ha fame di libertà, soprattutto religiosa: una fame che sta attraversando tutta la Cina. E il governo è sicuramente molto duro con loro: ho visto i video delle immolazioni apparsi sulla rete negli scorsi giorni e non sono riuscito a provare altro che compassione per queste persone”.

Il ruolo del Dalai Lama. Per il Governo cinese, è il Dalai Lama, capo politico e spirituale del Tibet, che fomenta le auto immolazioni, ma questi ha più volte chiesto ai propri fedeli di “mantenere il valore della vita al primo posto”, chiarendo che il buddismo tibetano “non ammette il suicidio” ed ha anche aggiunto: “Molti tibetani sacrificano le loro vite: ci vuole coraggio, molto coraggio. Ma con quali effetti? Il coraggio da solo non basta. Occorre usare giudizio e saggezza. Nessuno sa quante persone vengono uccise e torturate, ovvero muoiono per torture. Nessuno lo sa, ma molta gente soffre. Con quali effetti? I cinesi rispondono con più forza”.

Gli effetti dell’occupazione cinese. Secondo l’Associazione Italia-Tibet, dal 1950, quando iniziò l’occupazione del Tibet da parte della Cina – furono 87mila i civili uccisi – oltre un milione di tibetani sono morti e il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano, inclusi circa seimila monumenti tra templi e monasteri, è stato distrutto. La Cina – che occupa il Tibet con almeno 500mila soldati – ha depredato il Paese delle sue ricchezze naturali mentre lo scarico dei rifiuti nucleari e la massiccia deforestazione hanno danneggiato in modo irreversibile l’ambiente e il fragile ecosistema del Paese. Mentre prosegue la pratica della sterilizzazione e degli aborti forzati delle donne tibetane, la politica di discriminazione attuata dalle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, da quello scolastico a quello religioso e lavorativo. Il diritto del popolo tibetano alla libertà di parola è sistematicamente violato; migliaia di tibetani sono tuttora imprigionati, torturati e condannati senza processo. Le condizioni carcerarie sono disumane. I tibetani sono perseguitati per il loro credo religioso: monaci e monache sono costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dalai Lama e a dichiarare obbedienza al Partito Comunista. Attualmente, il numero dei rifugiati supera le 135mila unità e l’esodo dei profughi che lasciano il Paese per sfuggire alle persecuzioni cinesi non conosce tregua.

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