
Di Marco Testi
In qualsiasi epoca troviamo tracce di Pietro: o del suo martirio, o mentre viene preso per mano da Gesù perché, incredulo, non riesce a camminare sulle acque, o nella pesca miracolosa, o nel momento dell’apparizione dell’angelo che lo libererà dalle catene.
Josepe de Ribera, meglio noto come lo Spagnoletto, tra il 1613 e il ‘14 dipinge proprio quest’ultima scena, come aveva fatto Raffaello in un’opera, conservata nei Musei Vaticani, cento anni prima. L’angelo appare come un agile giovanetto che sta per prendere tra le sue mani un Pietro che forse sta appena svegliandosi da un sonno consolatore, o dal pianto. La sua barba è folta, grigia con sfumature più chiare.
Quando Pietro si affaccia sullo scenario dell’iconografia cristiana più antica, ad esempio nel tondo delle catacombe di Santa Tecla, è lì che cogliamo l’inizio di tutto, con quella raffigurazione di un pescatore non giovane, con capelli e barba bianchi.I grandi si rifaranno a questo modulo iconografico: tutti abbiamo di fronte la Crocifissione di Pietro di Caravaggio nella chiesa romana di santa Maria del Popolo; come aveva ben notato Roberto Longhi, coloro che stanno compiendo quello scempio sembrano degli operai al disbrigo di qualche faccenda, e non degli aguzzini.
Sessant’anni prima, Michelangelo terminava il suo ultimo affresco, nella cappella Paolina in Vaticano: il suo Pietro è un uomo aitante, con una aureola di bianchi capelli a circondare una evidente calvizie; un volto, che compie un ultimo sforzo, girandosi verso chi osserva, con uno sguardo sofferente ma anche ammonitore.
Ovviamente non possiamo fare a meno di ammirare il San Pietro di Giotto, non solo quello che taglia l’orecchio al servo del sommo sacerdote, siamo ai primi del Trecento, nella cappella degli Scrovegni a Padova, ma soprattutto quello del mosaico della Navicella nella basilica di San Pietro, cui potrebbe aver partecipato anche Cavallini, o qualcuno della sua scuola: Pietro è salvato dalle acque da un Cristo che guarda frontalmente, quasi tornato icona bizantina. “Quando sul lago ci trovammo nel pieno della tempesta e noi eravamo terrorizzati, Cristo non ci ha lasciato soli. Perché io, suo discepolo, non dovrei imitare il maestro?” Sono le parole di Pietro nel romanzo “Quo vadis?” di Henryk Sienkiewicz. È un personaggio che deve molto alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze, dove viene narrato l’episodio di Pietro che mentre sta per fuggire da Roma durante la persecuzione di Nerone, incontra Gesù, che gli dice di star andando a farsi crocifiggere una seconda volta. Al che l’apostolo decide di tornare indietro e di accettare il proprio destino, con quell’atto finale di umiltà nel chiedere di farsi crocifiggere a testa in giù, perché non si sentiva degno di imitare Gesù neanche in quella atroce morte.
Pietro è un uomo che ha fatto e continuerà a fare la Chiesa, ma anche l’arte e la letteratura.
È la dimostrazione reale della veridicità del passo di Matteo in cui si parla della petra scartata che diviene testata d’angolo.
È questo il personaggio narrato dagli scrittori, anche quelli dilaniati dal dubbio, come Baudelaire, che, nei suoi “Fiori del male” dedica una poesia al “Rinnegamento di San Pietro” in cui quell’episodio viene visto dalla parte umana, narrando un uomo che, come tutti, ha paura della tortura e della morte.
Per Dante, invece, Pietro era stato trasfigurato in un’entità ormai parte della perfezione celeste. L’antico pescatore è divenuto parte fondamentale del terzo regno, ed è lui a interrogare Dante. Nel XXIV canto del Paradiso è il magister che chiede semplicemente: “fede che è?”.
Non solo dottrina: Pietro appare a Dante acceso da una forza ardente di carità, di un amore capace di fondere l’umano con il divino. E di continuare a parlare agli uomini di ogni tempo e luogo.
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