(Foto Calvarese/SIR)

Di Martina Sardo

“Un aperitivo per discutere sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici all’università”. È uno degli inviti che ormai affollano, con cadenza quasi giornaliera, la mia casella di posta. Manifestazioni, assemblee, spazi di confronto per dire no ai nuovi tagli alla ricerca e richiedere, assieme, maggiori tutele per i giovani ricercatori e le giovani ricercatrici.
Così, mentre il mio assegno di ricerca è agli sgoccioli, e ancora non so se ci sarà un “dopo”, né dove o con quali garanzie, mi ritrovo puntualmente a fare i conti con le parole “precariato”, “incertezza”, “instabilità”, “futuro”.
Parole che – come tanti miei coetanei, credo – maneggio con fatica, e che non mi sono certo nuove.
Sono nata e cresciuta in un paese dell’entroterra siciliano dove precarietà e instabilità lavorativa sono una presenza costante, quasi una condizione normale. Ho imparato presto a riconoscerle nel lessico di tutti i giorni e ad associare loro una connotazione negativa. Da bambina, origliavo le conversazioni dei grandi: “mi hanno rinnovato il contratto ancora per due anni”, “sì, ma a 24 ore, non a 36”. Ricordo gli scioperi per chiedere una stabilizzazione, la preoccupazione di ulteriori tagli, il senso di sospensione. Ricordo di aver salutato alcuni miei compagni o amici del quartiere a metà anno scolastico, perché con le loro famiglie dovevano trasferirsi “dove c’è lavoro”, e di aver aspettato l’estate per rivederli, così come oggi aspetto di tornare a casa – a Natale, a Pasqua, ad agosto – per incontrare chi, quando può, torna.

Un Repubblica fondata sul lavoro?
Insomma, a distanza di anni, adesso che è toccato a me affacciarmi al mondo del lavoro, non sembra essere cambiato molto, anzi. In tanti, ci siamo trovati costretti ad accettare compromessi dolorosi, pur di garantirci un futuro: un lavoro diverso da quello che avevamo sognato; che ci assicura una sopravvivenza economica, ma non ci consente di fare altro; che non corrisponde spesso alle nostre competenze; in un luogo che non sentiamo casa, con stipendi inadeguati o senza le minime garanzie di sicurezza.
In tanti, un lavoro fatichiamo ancora a trovarlo.
Eppure, le parole degli articoli 1 e 4 della Costituzione ce le ricordiamo bene: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Affermazioni scolpite nella pietra, intrise di grande forza ideale, che sembrano risuonare, però, come un’eco lontana: come se non parlassero più a noi, come se non riguardassero le nostre vite.
Infatti, se la precarietà è la via d’accesso quasi obbligata al mondo professionale; se il profitto vale più della competenza, delle inclinazioni personali, dei sogni; se, in altri termini, il lavoro diventa una conquista faticosa, più che un diritto garantito, diventa difficile credere che esso sia ancora quel fondamento, carico di speranza, su cui fondare la Repubblica. O forse, più semplicemente, risulta difficile associare al lavoro la parola stessa, speranza.

Sperare nel lavoro: cosa significa davvero?
È difficile, probabilmente, perché rischiamo di confonderla con il desiderio di trovarlo, un lavoro, o di trovarne uno che rispecchi le nostre aspettative più alte e ci consenta una piena realizzazione, professionale e personale.
“La speranza – mi ricorda, tra un momento di fatica e l’altro, un assistente diocesano – non è il desiderio che le cose vadano come desideriamo ma la fiducia nella parola di Gesù e nelle sue promesse. Se il Signore dice ‘non preoccupatevi per il domani (Mt 6, 34)’ non è mica un bugiardo!”
L’esercizio di speranza a cui siamo chiamati, allora, non è quello di guardare con ottimismo al futuro, ma di riconoscere in ogni cosa le promesse di Cristo; di individuare, anche nell’instabilità e nella fatica, una certezza di bene; la certezza di potere dare sempre un significato nuovo a ciò che ci accade.
Allenare la speranza, mentre progettiamo, costruiamo, sogniamo il nostro lavoro, è tenere ferma la possibilità: non quella che è nelle nostre mani, ma quella delle mani di Dio; è credere che a Lui interessi davvero di noi!

Non attesa passiva, ma impegno concreto
Sperare, però, non è neppure l’attesa che il bene arrivi magicamente. Piuttosto, è l’impegno concreto a realizzare ciò che si spera.
Tanto può voler dire fare il proprio meglio, quando la fatica del lavoro quotidiano prende il sopravvento e ci fa venire voglia di mollare tutto; ricalcolare percorsi, abitando con fiducia l’imprevisto. Può significare non accettare come normale ciò che normale non è: il ricatto della precarietà, il disprezzo verso chi lavora senza tutele, la logica che sacrifica le persone sull’altare del guadagno.
Così, il lavoro diventa occasione per organizzare la speranza: un’occasione per crescere, come singoli, come famiglie, come comunità, mettendo a frutto le proprie competenze e contribuendo, ciascuno secondo le proprie possibilità, alla costruzione di società più giuste, più umane, che sappiano combattere le disuguaglianze e sostenere le fragilità.
In questo senso, Papa Francesco ci ha più volte ricordato che il lavoro è la forma più alta di promozione sociale e che ogni comunità ha il dovere “formare, educare ad un nuovo umanesimo del lavoro, dove l’uomo, e non il profitto, sia al centro; dove l’economia serva l’uomo e non si serva dell’uomo”. E Papa Leone XIV, con il suo stesso nome, sottolinea da subito l’importanza di mettere al centro, in questo tempo, l’impegno a che tutti possano godere della dignità del lavoro.

Riscoprirsi “creatori”, capaci di generare cose nuove
Mettere al centro il lavoro e la sua dignità significa riscoprirsi simili al Padre nella capacità di creare. “[…] con il lavoro l’uomo è creatore, è capace di creare tante cose […] l’uomo è un creatore, e crea con il lavoro. Questa è la vocazione […] Cioè, il lavoro ha dentro di sé una bontà e crea l’armonia delle cose – bellezza, bontà – e coinvolge l’uomo in tutto: nel suo pensiero, nel suo agire, tutto”.
Sperare nel lavoro è riscoprirsi “creatori”: capaci di generare cose nuove; di dare vita a nuove idee e progetti, di far circolare pensieri e passioni, di tessere alleanze e relazioni che costruiscano comunità solidali. È riscoprirsi capaci di rendere visibile e concreto il Regno di Dio già nel presente, qui e ora.
Così, perfino le parole della Costituzione tornano a vibrare: sono una promessa sempre aperta, che attende di essere realizzata ogni giorno. Con politiche coraggiose, ma anche con scelte quotidiane, che sanno scorgere il bene e impegnarsi a costruirlo assieme, per tutti e tutte. A partire dall’interessarsi ai dibattiti che ci coinvolgono, dall’informarsi e dal partecipare, dall’esprimere il proprio voto, specie quando i quesiti in gioco – come quelli del prossimo referendum – parlano proprio di questo: del lavoro e della sua dignità.
Con questa consapevolezza, prendo la borsa e vado: ho un aperitivo stasera.

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