DIOCESI – Nato a Nave, in provincia di Brescia, il 26 Marzo del 1949 ed ordinato presbitero il 7 Giugno del 1975, a 64 anni, mentre è rettore al Seminario di Brescia, il 4 Novembre del 2013 viene nominato da papa Francesco vescovo della diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, dove rimane per poco più di dieci anni, dall’11 Gennaio 2014 fino al 30 Giugno 2024: si tratta di mons. Carlo Bresciani, vescovo emerito della Diocesi Truentina, che Sabato 7 Giugno 2025, alle ore 21:00, durante la Veglia di Pentecoste presso la cattedrale Santa Maria della Marina in San Benedetto del Tronto, festeggerà il 50° anniversario di ordinazione presbiterale con la sua Chiesa.
Lo abbiamo incontrato per ripercorrere insieme a lui questi lunghi ed entusiasmanti anni, di cui è stato protagonista.
Quando e come è avvenuta la sua vocazione?
Sono entrato in seminario a 18 anni. All’epoca la chiamavano vocazione adulta. Oggi questa espressione fa sorridere! La mia era una famiglia numerosa. Eravamo quattro figli – due maschi e due femmine – a cui badava nostra madre. L’unico stipendio quindi era quello di nostro padre, che era un operaio. Avevamo anche un piccolo appezzamento di terra che usavamo per coltivare alcuni prodotti da utilizzare a pranzo e cena. Io ero il terzo figlio e, appena terminate le Scuole Medie, ho dovuto interrompere gli studi per contribuire alle necessità della famiglia. Mentre lavoravo in un’officina meccanica, frequentavo l’Istituto Tecnico serale. Ad un certo punto, però, mi sono reso conto che la mia strada non era quella. In realtà non è stata una decisione improvvisa, bensì maturata nel tempo, che si è protratta solo per necessità contingenti dal punto di vista familiare. Non c’è stato dunque un evento particolare che abbia influito sulla mia vocazione, bensì due elementi che mi hanno plasmato e segnato indirettamente. Prima di tutto la formazione religiosa che è stata assunta in famiglia. I miei genitori avevano una religiosità molto semplice. Mia madre aveva l’attestato di Terza Elementare e mio padre quello di Quinta Elementare. All’epoca era così per molti. Dunque ogni aspetto della vita era molto semplice, anche la fede, ma al contempo era pure molto forte, solida, viva, fatta di vita concreta, di quella vita del popolo. Poi determinante è stata anche la vita di parrocchia. Venivo da una esperienza di oratorio molto forte: aiutavo un po’ nel catechismo, ero sempre presente in parrocchia, frequentavo in maniera assidua l’oratorio e facevo parte di un gruppo di amici molto affiatati, dal quale sono nate tre vocazioni: una ragazza è diventata una suora sacramentina e io e don Roberto Zappa siamo diventati preti insieme.
Quando, dopo lunghe riflessioni, mi sono finalmente deciso ad entrare in seminario, ho dovuto riprendere gli studi daccapo e sostenere l’esame di maturità statale, perché all’epoca ancora non c’era la parificazione. Dopo aver superato gli esami statali da privatista, ho proseguito gli studi di Teologia presso il Seminario di Brescia. Qui è iniziato un cammino molto stimolante. Mantengo un bellissimo ricordo del mio seminario, dei miei docenti e del clima di formazione vissuto. Eravamo una classe numerosissima, per cui quando siamo stati ordinati, eravamo 33 sacerdoti della diocesi, più qualche religioso che si è aggiunto.
Cosa ricorda di quel lontano 7 Giugno 1975, in cui è stato ordinato presbitero?
Ricordo tutto molto bene. Prima di tutto vi racconto un fatto buffo! In quel periodo il Duomo di Brescia era chiuso per urgenti lavori di ristrutturazione a causa di alcuni stucchi caduti dalla volta, pertanto siamo stati ordinati all’aperto, nel cortile del seminario, sotto un sole caldo e cocente. E ricordo anche che tutto il contesto che faceva da scenografia alla nostra ordinazione era molto bello: essendo oltre 33 i presbiteri ordinanti, tutto il grande emiciclo che circondava il seminario era colmo di persone. È stata la celebrazione più lunga della mia vita!
Oltre all’aspetto esteriore, ricordo anche la parte più spirituale della mia ordinazione, che è certamente la più importante. Il vescovo che mi ha ordinato era mons. Luigi Morstabilini. Di lui e di tutti i miei compagni di seminario con cui sono stato ordinato, ho un ottimo ricordo. È stato un momento di intensa spiritualità, di comunione e di donazione al Signore, e anche di grande entusiasmo che ci animava. Da lì è partita la storia della mia vita. Una vita che non avrei mai immaginato.
Cosa intende?
Finito il seminario, il vescovo mi ha mandato a Roma a studiare. Io mi aspettavo di andare a fare il vicario parrocchiale in qualche comunità della diocesi: era quello l’esito usuale a cui un giovane prete andava incontro. Invece nella prima destinazione, il vescovo mi ha mandato a Roma, dicendomi che avrei dovuto frequentare prima gli studi di Psicologia e poi quelli di Teologia Morale, quindi due lauree. Devo confessare che per me è stato un colpo, perché proprio non me l’aspettavo; però avevo detto che sarei stato disponibile per la diocesi, quindi ho fatto quello che mi è stato richiesto. Sono rimasto nella capitale per sei anni ed ho conseguito le due lauree. Dopo una breve pausa da vicario parrocchiale a tempo pieno. Tornato da Roma, ho cominciato l’insegnamento di Teologia Morale in seminario. Dal 1983 fino al 2013, quindi per circa trent’anni, ho sempre esercitato l’insegnamento in seminario, prima come docente e poi anche come rettore. Ho insegnato Teologia Morale nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Cattolica di cui sono divenuto anche direttore per una decina d’anni, ma conservando la cattedra. Ho insegnato anche Bioetica alla facoltà di Medicina. L’esperienza della docenza mi ha arricchito molto perché mi ha permesso di mantenermi sempre a stretto contatto con i giovani – sia i giovani preti che i giovani medici – e poi anche con gli insegnanti di religione Nel contempo, però, ho sempre esercitato il ministero pastorale il Sabato e la Domenica nelle varie parrocchie della diocesi. Io, quindi, in parrocchia ci sono sempre stato. Certo non a tempo pieno, ma, seppur con un tipo di presenza diversa, sempre a contatto con la gente: la sera spesso c’erano conferenze, altre volte uscivo la sera per aiutare i sacerdoti nelle parrocchie, alcune volte mi occupavo della preparazione dei fidanzati al matrimonio, altre volte ancora seguivo gli incontri rivolti ai giovani. Ho vissuto quindi una varietà e ricchezza di esperienza molto impegnativa certamente, perché le ore d’insegnamento erano tante, ma anche molto soddisfacente, per gli insegnamenti e gli stimoli che provenivano dalle diversità sensibilità che incontravo. Quindi, sebbene all’inizio la volontà del mio vescovo mi abbia un po’ colto di sorpresa, alla fine tutto si è rivelato una grande ricchezza. Oggi sono molto grato al mio vescovo perché ha riposto in me una grande fiducia, affidandomi anche compiti abbastanza seri e impegnativi, come la formazione di preti.
E invece si aspettava di diventare Vescovo? O anche qui è stata una sorpresa? Come è avvenuta la nomina?
Anche questo non me l’aspettavo assolutamente! Anzi, forse qui sono rimasto più sorpreso di prima! Ormai avevo quasi 64 anni ed ero rettore del seminario: pensavo che la mia vita si sarebbe chiusa lì. Invece è arrivata questa notizia improvvisa ed inaspettata, ma anche molto bella! Come ho detto molte volte, non avrei mai immaginato di venire a San Benedetto del Tronto, anche perché era una zona che non conoscevo per niente affatto!
È stato Vescovo per 10 anni. Con la consapevolezza del dopo, c’è qualcosa che non ha fatto, ma che avrebbe voluto fare?
Quando uno rilegge la propria vita con la sapienza del poi, si rende conto sempre che forse alcune cose avrebbe voluto affrontarle diversamente. Io, ad esempio, appena nominato Vescovo, ero inesperto e non conoscevo i preti di San Benedetto, non conoscevo la storia della città, non conoscevo la storia del laicato; quindi all’inizio mi sono guardato in giro cercando di capire su chi poter contare per un aiuto. Naturalmente il Vescovo da solo non può agire e raccoglie certamente una eredità che deve continuare, nel senso che non è che è una diocesi che inizia da zero, bensì c’è una eredità, c’è una storia e una storia che deve continuare. Mi sono inserito cercando di capire come muovermi dentro questa realtà. In questo senso ho cercato di impostare un’azione e devo dire che ho trovato tanta collaborazione: una risposta buona da parte dei preti e una grande disponibilità anche da parte della gente. Per me sono stati anni decisamente molto belli, molto intensi e anche stimolanti. Appena arrivato, era stato celebrato da pochissimo tempo un sinodo e quindi si trattava di trovare il modo di continuare e attuare quelle idee che dal sinodo erano venute. Quelle linee mi hanno aiutato molto, sono state delle indicazioni. Una priorità era stata data alle unità pastorali, un’altra alla pastorale giovanile con Casa Giovani.
Tra tutte le azioni messe in campo durante il suo episcopato, qual è quella di cui è maggiormente contento?
Sicuramente l’andamento delle unità pastorali, che erano già state avviate, ma che avevano bisogno di essere sostenute in maniera più decisa, dando un impulso ulteriore ai Consigli Pastorali e soprattutto migliorando l’aspetto formativo che richiede dinamiche temporali ampie.
Poi credo che dal punto di vista della formazione si sia fatto un bel cammino, certamente dal punto di vista dell’ordinamento economico, poi attraverso l’elaborazione di Statuti.
Infine sono molto contento di quanto fatto nell’ambito della carità diocesana e anche delle carità parrocchiali alle quali è stato dato un grande impulso. Certamente resta ancora un cammino da fare, ma la Chiesa è dinamica e prosegue per la sua strada. Abbiamo davanti a noi l’ideale di Chiesa, ma poi abbiamo il reale nel quale si cammina davvero, con tutti i limiti che si hanno, ma anche con tutte le ricchezze.
Come è cambiata la Chiesa in questi cinquant’anni?
È cambiata moltissimo. Sia la Chiesa di Brescia da cui evidentemente provengo, sia la nostra Chiesa qui di San Benedetto. Quella di cinquant’anni fa non c’è più! Non solo le persone ovviamente, ma anche come struttura è cambiata molto e non solo nella frequenza. Basti pensare all’evoluzione tecnico-scientifica nella quale noi siamo, che ha
influito molto sulla Chiesa. Anche dal punto di vista della formazione, cinquant’anni fa gli universitari si contavano in maniera molto molto minore rispetto ad ora e quindi anche la formazione della popolazione è cambiata molto. Poi il lavoro femminile ha inciso certamente anche profondamente sullo stile di vita della Chiesa, certamente in positivo, ma con i limiti che questo comporta. Limiti che vanno affrontati. È cambiata molto anche la frequenza. Poi se penso a come era cinquant’anni fa, la presenza del clero sul territorio era maggiore ed aveva una incidenza decisamente diversa. La partecipazione alla vita della Chiesa era certamente più intensa. Non dico che fosse tutto positivo o no, però certamente alcuni aspetti sono cambiati moltissimo.
Qual è la sfida principale che, secondo lei, la Chiesa dovrà affrontare nei prossimi anni?
La sfida più grande che la Chiesa dovrà affrontare in questo cambiamento inevitabile è che andiamo verso una forma nuova di Chiesa. La Chiesa continuerà, ma la Chiesa che abbiamo conosciuto, che ho conosciuto io in questi cinquant’anni, non è la Chiesa che c’era trecento anni fa e non è la Chiesa di cinquecento anni fa e non è quella del futuro. Sicuramente la sfida molto forte è una riscoperta diversa del laicato e quindi di una pastorale non incentrata esclusivamente sul prete. Si dovrà trovare una forma nella quale il sacerdote certamente ci sia, ma in cui anche i laici siano molto attivi e presenti. E questo non solo per la mancanza di sacerdoti, ma anche perché la Chiesa è corresponsabilità di tutti. Quindi cambierà sicuramente la struttura delle parrocchie, stimolata sia dalla carenza del clero, sia dalla mobilità che noi abbiamo e che adesso è molto diversa da quella del passato. Un tempo passare da Ripatransone a San Benedetto era una cosa molto lunga e rara. Oggi la gente va e viene da San Benedetto del Tronto a Ripatransone in poco tempo e in tempi rapidi, magari per motivi di scuola, di spesa, di attività sportive. I confini della parrocchia non potranno più essere quelli del passato e questo comporta necessariamente che si pensi ad una pastorale che non è chiusa sulla parrocchia, perché i confini sono permeabili.
Cosa del futuro del mondo le fa paura e che cosa invece le dà speranza?
Il futuro, per natura sua, è incognito e nessuno può leggere cosa ci attende se non il nostro Signore. Il futuro ci riserva certamente tante sfide, ma io lo vedo con fiducia, che non vuol dire che lo vedo senza difficoltà, ma con la possibilità di affrontare le difficoltà con il tempo necessario. Certamente sarà un futuro che ci riserverà tanti cambiamenti. Basti pensare a tutte le implicazioni dell’intelligenza artificiale. È un futuro dove il progresso tecnico-scientifico rischia di illudere molto. Pur essendo infatti qualcosa di positivo, con delle ricadute utili, tuttavia porta con sé un rischio grande: quello di illudere che basti il progresso tecnico-scientifico perché ci sia un’umanità nuova. L’umanità nuova ha bisogno del progresso, ma non solo di progresso. Come non di solo pane vive l’uomo, non di solo progresso vive l’uomo. Quindi ci saranno delle nuove sfide anche dal punto di vista della Chiesa e della fede stessa. L’uomo dovrà ritrovare fiducia in se stesso e soprattutto fiducia reciproca. Oggi quello che mi sembra di vedere è che rischiamo di costruire nuovi muri, dopo averli abbattuti nel passato, e di chiuderci nel nostro individualismo. L’individualismo è un grosso rischio che sta minacciando il nostro futuro. Il messaggio cristiano resta ancora fondamentale di fronte all’individualismo, perché certamente ci porta alla necessità di scoprirci come comunità e quindi a scoprirci come interdipendenti gli uni con gli altri, cioè a capire che ogni muro è una divisione e la divisione non è mai una ricchezza. La ricchezza è sempre trovare, seppur con fatica, le strade della comunione, cioè scoprire nell’altro quella ricchezza che io non ho e scoprire in me quella ricchezza che io posso dare all’altro. Abbiamo tutti qualcosa da darci reciprocamente, perché tutti siamo limitati, ma diventiamo più ricchi quando scambiamo quelle poche ricchezze, quei pochi doni, quelle poche doti.
Cosa augura a se stesso per il futuro?
Come sapete, ormai sono pensionato. Devo dire che non vivo per niente affatto di rimpianti, bensì con tanta gratitudine per quello che ho ricevuto da tantissime persone, da tantissimi sacerdoti, sia a Brescia sia qui a San Benedetto. Porto dentro di me un grande senso di gratitudine per quello che ho potuto vivere, per quello che mi è stato dato, per quello che il Signore mi ha permesso di dare. Adesso quello che io cerco di dare è quello che mi viene chiesto da pensionato: a volte un aiuto fatto di parole, altre volte mi rendo disponibile in diocesi per le varie cerimonie, per le Cresime e per quanto altro ci sia da fare. Ho più tempo onestamente per riprendere in mano qualche libro e per rimeditare un pochettino. Ho anche più tempo per la preghiera rispetto a quando ero in piena attività. Per il resto cerco rispondere alle domande che mi vengono fatte dal punto di vista del Ministero, per lo più ovviamente nella diocesi di Brescia, dove sono, oppure nei piccoli servizi che posso fare anche nella diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto. In questi giorni, ad esempio, sono a Ripatransone per gli esercizi spirituali.
Lei resta incardinato a San Benedetto. Ha intenzione di tornare?
San Benedetto ovviamente lo porto dentro di me e di San Benedetto me ne ricordo ogni giorno, anche nelle mie preghiere. È ovvio che la distanza non permette una presenza così assidua, però, appena posso, scendo, perché questa è la mia Chiesa e non posso dimenticarmi della mia Chiesa. Ho fatto così per il Giovedì Santo e anche in questa settimana per la veglia di Pentecoste, quando festeggeremo il cinquantesimo anniversario della mia ordinazione presbiterale. Sono molto grato al Vescovo Gianpiero, che ha voluto che fossi qui in diocesi per la celebrare insieme a tutti i fedeli della diocesi. Mi fa molto, molto piacere poterlo celebrare insieme, perché mi sento sempre in comunione con i sacerdoti e con i fedeli della mia diocesi. È certamente un momento di gratitudine. Ringrazio davvero il Signore, perché non mi sono mai trovato pentito di essere diventato sacerdote. Mai. In alcun momento. Certamente momenti difficili ci sono stati, ma si sono alternati alti e bassi come in ogni vita, ma mai mi sono pentito di essere sacerdote. Ringrazio davvero il Signore di questa vita che mi ha permesso di vivere con tutta la ricchezza che ha portato con sé, di cui mi sento veramente molto molto arricchito.
Cosa direbbe alle nuove generazioni in generale? E cosa potrebbe trovare di bello un giovane nell’essere sacerdote oggi?
Io credo che se uno vuole essere felice nella vita, bisogna osare cose grandi, con prudenza e saggezza, ma cose grandi. Perché, se si resta nella palude, non si ha mai la felicità che si cerca.
Le cose grandi sono impegnative, ma sono anche quelle che alla fine danno maggiore soddisfazione. Ovviamente si tratta di cose grandi che hanno un significato e che sono cose buone. E per quanto riguarda il sacerdozio, posso testimoniare che sono tante le cose grandi che il sacerdozio mi ha permesso di realizzare: la relazione con Dio, ma non solo, anche le relazioni con i fedeli, con la gente. È una ricchezza veramente molto, molto grande e bisogna osare per poterla gustare.
Al vescovo Carlo Bresciani giunga la gratitudine della Chiesa di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto e gli auguri vivissimi di tutta la redazione del giornale interdiocesano L’Ancora.
Girolami Saula
Le invio Eccellenza i Migliori Auguri per il Suo 50° Anniversario di Ordinazione Presbiterale, davvero un bel traguardo!
Alberto Furlanetto
Forse di me non si rammenta: ero in seminario a Mantova e lei ha predicato un corso di Esercizi Spirituali. Adesso nella mia condizione non posso fare altro che guardare a certi ' traguardi'. Gradisca il mio augurio più sincero per la messa d'oro.