Padre Giovanni Gargano con alcuni cristiani nella Missione di Noluakuri (Foto G.G./Missio)

Loredana Brigante

“Asha” nella lingua bengalese significa “speranza”. Ma la traduzione più vicina alla realtà è quella che si cala nella vita delle persone. È l’impegno costante di padre Giovanni Gargano, missionario saveriano in Bangladesh da 18 anni: “Essere non solo pellegrini di speranza, ma soprattutto testimoni. È la grande sfida che in questo Paese facciamo nostra, giorno dopo giorno”.

In cammino con il Signore. Padre Giuà, come lo chiamano tutti da quando nel 1988 è entrato nella comunità saveriana di Desio (“eravamo in due con lo stesso nome”), è originario di Salerno, dove ha maturato la scelta di farsi missionario “frequentando il gruppo giovanile, i campi di lavoro, le scuole di preghiera e il territorio”. A 30 anni, nel 1998, l’ordinazione sacerdotale, poi il servizio come animatore missionario e vocazionale a Desio e a Salerno e, nel 2007, la partenza per“un cammino in cui il Signore mi ha sempre accompagnato, fin da quando ho sentito il desiderio di essere dono per gli altri”.

(Foto G.G./Missio)

Una comunità mista. Il Bangladesh è diventato la sua seconda casa: il luogo in cui “si sta creando un’unica famiglia e tutti possono sentirsi accolti”. Si riferisce alla varietà di culture presenti nella diocesi di Mymensingh, dove – oltre al gruppo tribale dei “Mandi” che rappresenta la maggioranza – vivono “Santal”, “Urai”, “Pahari”, “Chakma” e “Tripura”. “Stiamo diventando una comunità mista: questa è una ricchezza che favorisce la conoscenza reciproca”. In quella zona, a 70 chilometri dalla capitale, vivono soprattutto gli operai del settore tessile e della ceramica. Molto forte anche il campo delle costruzioni. Infine, a Dhaka, abitata da più di 20 milioni di abitanti, le donne lavorano nei “beauty parlour” (centri estetici) o come infermiere.

Industrie, lavoro e… inquinamento. “Di fatto, nella nostra missione di Noluakuri, molti vengono a lavorare nelle fabbriche”, dice il missionario (nella foto sopra con Anna Paola Turco del Consiglio nazionale laici saveriani), spiegando che lo sviluppo industriale e in particolare la lavorazione della pelle, oltre ad aver soppiantato quasi del tutto l’attività agricola ancora praticata nei villaggi, è causa di due gravi problemi: l’inquinamento dei fiumi e lo smaltimento dei rifiuti. A ciò si aggiunge una forte corruzione.In attesa delle prossime elezioni politiche, attraverso le quali “la gente spera in un governo che si impegni a far crescere il Paese”, la Chiesa del Bangladesh fa la sua parte e si fa prossimo.

Pellegrinaggio a Baromari, Mymensingh (Foto G.G./Missio)

L’annuncio del Vangelo. “Ci sono diversi progetti educativi, di sanità, agricoltura in collaborazione con la Caritas e altre istituzioni cattoliche. Anche l’Opera di San Vincenzo è molto attiva e le suore di Madre Teresa svolgono un ruolo importante tra i poveri. Poi, ogni congregazione religiosa mette in atto iniziative per sostenere le situazioni locali”. Padre Giuà racconta di essersi inserito bene e di vivere in comunione con il clero locale, che è molto giovane. Le sue giornate da parroco, nei tre villaggi della missione, trascorrono “tra visite ad ammalati, scuola, corso tecnico della Caritas e gruppi di catechesi, in una diocesi in cui il Vangelo è stato annunciato ma va sempre rinnovato”. Soprattutto, si mette in ascolto. “Essere pellegrini di speranza in Bangladesh si concretizza nell’essere vicini alla gente, in un atteggiamento di dialogo e accoglienza. Significa entrare nelle case per pregare, per offrire l’occasione di un incontro in cui poter condividere le gioie e le tristezze della propria vita”.

Germogli di speranza. Anche la strada o una sala da the diventano luoghi “per essere segno della presenza di Dio, pur tra il frastuono dei clacson; per incoraggiare i giovani a vivere in pienezza; per immergersi nel mondo di chi lotta ogni giorno per un piatto di riso”. In un Paese così sovrappopolato, con 174 milioni di abitanti, e che si è reso indipendente da poco più di 50 anni, serve “far nascere germogli di speranza non solo per pochi”, in nome della fraternità universale. “Per me, essere missionario in Bangladesh è testimoniare che Dio è Padre di tutti e ama tutti e, nello stesso tempo, donare loro quella speranza che libera il cuore”.

I cristiani sono l’1% della popolazione. A gennaio, è stato inaugurato l’Anno giubilare nelle otto diocesi del Bangladesh. Nella cattedrale di Dhaka erano presenti centinaia di fedeli, espressione di una comunità in cammino da più di 500 anni. La diffusione del Vangelo si deve, infatti, all’ingresso dei primi mercanti portoghesi a Chittagong nel 1517 (a Sud, nella zona di Ishoripur, nel 1600). Nel Paese, a maggioranza islamica, sono 400mila i cattolici presenti; i cristiani rappresentano l’1% della popolazione. Padre Giuà, anche pensando “al clima politico attuale e alle continue manifestazioni di protesta”, parla di “una Chiesa in minoranza che testimonia la speranza cristiana e dialoga con le altre religioni”.

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