(Foto ANSA/SIR)

Giuseppe Casale

Tregua è fatta. Non pace, comunque, è un risultato assai importante, considerata la sequenza di negoziati falliti a Doha e al Cairo dal tragico e controverso 7 ottobre 2023, a fronte delle svariate decine di migliaia di vittime. E pregiudicati di volta in volta da attentati spettacolari (i walkie-talkie libanesi), bombardamenti su sedi diplomatiche, omicidi “eccellenti” (Nasrallah, storico leader di Hezbollah, Aniyeh e il successore Sinwar al vertice di Hamas). E poi i rischi di esplosione regionale, con gli scambi missilistici tra Israele e Iran, il coinvolgimento del Libano con i raid aerei e la tentata invasione terrestre, l’implicazione in Siria.
La tregua, siglata con la mediazione di Qatar, Egitto e Usa, sarà operativa dal 19 gennaio, distesa su 42 giorni, scandita in tre fasi. La prima, con un iniziale scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, l’accesso di aiuti umanitari e il ritiro dei militari dell’Idf in zone cuscinetto; la seconda definirà il completamento della prima; l’ultima fase dovrebbe programmare la ricostruzione e l’insediamento di una nuova amministrazione nella Striscia.

Trump ha dato la notizia in anteprima sul social Truth, per intestarsene il merito, e questo spiega molto.

Mentre Biden rivendica l’efficacia della traccia da lui delineata nel maggio scorso, il messaggio del successore alla Casa Bianca illustra un elemento decisivo: la tregua sarà il trampolino per rilanciare gli Accordi di Abramo, di cui detiene il brevetto.
Hamas parla del frutto della tenace resistenza palestinese alla violenza distruttrice di Israele, mentre il governo di Tel Aviv, meno trionfalistico, vanta comunque il successo di aver punito il nemico riportando infine a casa gli ostaggi.
Su Hamas hanno pesato i risvolti nel teatro siriano, dove la caduta di Assad ha interrotto il corridoio tra Iran ed Hezbollah, su cui sinora la guerriglia urbana palestinese ha potuto fare conto, e ha inciso anche la spinta di Trump, accompagnata dalla minaccia di rendere la situazione di Gaza, se possibile, via più infernale.
Israele ha fatto i conti con più variabili: possono aver pesato le ambivalenze dell’incognita siriana sotto la regia di Ankara, sospettandone la tentazione di competere con Teheran, per assegnarsi – con maggior coerenza confessionale, vista la condivisione sunnita tra turchi e arabi – il ruolo di membro Nato di prim’ordine. D’altronde, Teheran, venuta meno la sponda di Damasco e paventando le strette di Trump, potrebbe dotarsi di armi nucleari, e già si accinge a sottoscrivere con la Russia un partenariato strategico globale, che potrebbe integrare il settore difesa con funzioni di deterrenza.
Il Likud è poi strettamente legato ai repubblicani Usa, cementato dai nessi personali tra Netanyahu e Trump, il che rende il primo sensibile all’intento del tycoon di normalizzare il Medioriente, quel minimo che servirebbe a integrare l’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo: per delegare al sodalizio israelo-saudita la gestione del Medioriente, ma anche per strappare Riyad all’orbita dei Brics e contrastare la dedollarizzazione dei mercati, cui sta contribuendo la diversificazione valutaria dell’export del greggio arabo (anche in yuan cinese). Una contropartita da offrire ai sauditi sarebbe la ricostruzione di Gaza con relativo affaccio dei loro interessi sul Mediterraneo, cercato anche in Libano.

Insomma, gran parte delle strade porta a Washington, in vista dell’insediamento trumpiano. Giunti a questo punto, Hamas e Israele si saranno interrogati sugli obiettivi perseguibili nel vicolo cieco scavato in questi 15 mesi, oltre l’orizzonte del massacro che miete vittime anche tra le regole del supposto ordine globale su cui si basa; un massacro che per la popolazione gazawi vuol dire decimazione, mentre per Tel Aviv significa anche discredito internazionale, proteste interne mobilitate dai familiari degli ostaggi, carenza occupazionale imposta dalla rotazione dei richiamati, stress traumatico nelle file dell’Idf e blocco dei traffici nel Mar Rosso inferto dagli Huthi.

Vero è che sulla tregua incombono varie incognite: eventuali violazioni, pur episodiche, potrebbero provocare la recrudescenza; inoltre, Hamas accetterà nei fatti il non-detto dell’accordo, cioè la propria estromissione dalla Striscia, con subingresso dell’Anp nell’amministrazione di Gaza? Il governo Netanyahu si asterrà dall’usare le zone cuscinetto (quali?) assegnate all’Idf come avamposto per insediamenti di coloni nel nord della Striscia, in linea con i progetti dell’ultradestra e dei sionisti religiosi inclusi nell’esecutivo, oppure la tregua a Gaza suggerirà di forzare la mano in Cisgiordania per nuove occupazioni illegali? Sullo sfondo, nel lungo periodo, si profilano gli effetti della disperazione e dell’odio irrorati dal sangue versato, incubatori di vendetta.
Sono elementi di cui tenere conto, ma da non permettere che paralizzino il coraggio di costruire la pace, attraversando le incertezze e ricominciando dai fallimenti; da un punto occorre pur partire. E questa tregua lo offre.

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