Di Daniele Rocchi
“Stiamo vivendo, ormai da 11 mesi, l’esperienza di una guerra terribile. La maggior parte dei nostri fedeli sono cittadini israeliani, ci sono figli di migranti che sono nati qua e vivono nel contesto culturale israeliano e per questo si sentono israeliani. Siamo tutti sotto shock per quanto sta accadendo”.
Al telefono, da Gerusalemme, padre Piotr Zelazko, vicario patriarcale del Vicariato di San Giacomo per i cattolici di lingua ebraica in Israele, prova a descrivere al Sir lo stato d’animo con cui i suoi fedeli, circa un migliaio ripartiti in sette comunità (Gerusalemme, Haifa, Beersheva, Tel Aviv-Yaffo, Tiberiade, comunità migranti e comunità russofone, ndr.), dette “kehillot”, stanno vivendo la guerra in corso tra Israele e Hamas e le tensioni interne alla società israeliana di cui sono parte integrante.
Il volto di Hersh. Nei giorni scorsi il vicario ha partecipato ai funerali del giovane Hersh, figlio di Rachel Goldberg and Jon Polin, uno dei sei ostaggi uccisi da Hamas e ritrovati in un tunnel a Rafah. “Giovedì, 5 settembre, – racconta – ho portato un messaggio di condoglianze a tutta la famiglia da parte della nostra comunità ebreofona. Nel testo c’era scritto: ‘Hersh e tutti gli ostaggi erano nelle nostre fervide preghiere e speravamo nel loro ritorno sano e salvo. La prematura scomparsa di Hersh ha lasciato un vuoto nei nostri cuori, ma troviamo conforto nella fede che ora è nell’abbraccio amorevole del nostro Creatore’.
Tutti gli ostaggi, oggi, hanno il volto di Hersh.
La sua famiglia – ricorda padre Zelazko – ha bussato a tutte le porte, in ogni paese del mondo. Non credo che si potesse fare molto di più. Stava per essere liberato invece è stato ucciso. Sentire di non potere fare niente, come inutili, suscita rabbia, vendetta. Sentimenti che ti distruggono dentro ma che poi scemano lasciando spazio alla preghiera, all’affidarsi a Dio, consapevoli che ci sono ancora ostaggi e altre persone toccate dalla guerra per le quali continuare a pregare ogni giorno nelle nostre comunità”. “Il nostro Vicariato – spiega, infatti, il sacerdote – riunisce i cattolici di lingua ebraica che vivono in Israele, quelli appartenenti al popolo ebraico e quelli provenienti da altri paesi, tra cui un certo numero di migranti e cristiani locali. Siamo in unione con Papa Francesco, con il patriarca, i suoi vicari, i sacerdoti e tutti i fedeli del Patriarcato latino. Allo stesso tempo, ci sentiamo a casa nella società israeliana di lingua ebraica”.
Ascoltare il pianto di Gaza. I contatti di padre Piotr con le kehillot sono continui anche così si genera unità e vicinanza spirituale e materiale davanti a tanta violenza e morte. “Ci domandiamo ogni giorno che cosa possiamo fare – racconta il sacerdote di origini polacche – e la risposta è sempre la stessa: pregare per la pace, per la liberazione degli ostaggi, per i nostri ragazzi arruolati, per tutte le famiglie”. “Ma senza dimenticare chi soffre anche dall’altra parte perché le lacrime delle mamme non hanno la bandiera”, afferma padre Zelazko, richiamando parole dello scrittore Gideon Levy che, su Haaretz (del 5 settembre 2024, ndr.), scrive che “è umano che i cuori degli israeliani siano con le vittime israeliane. Ma è immorale che non ci sia nessun riguardo per le decine di migliaia di vittime palestinesi”.
“A Gaza ci sono fratelli e sorelle cristiani. Dobbiamo ascoltare il loro pianto. Anche a Gaza ci sono vittime innocenti”, ricorda il vicario che, impegnato nel campo del dialogo, il 29 novembre scorso prese parte ad un evento interreligioso a Kfar Aza, uno dei luoghi attaccati da Hamas il 7 ottobre, per pregare insieme con ebrei, cristiani, musulmani e drusi per le vittime e per le loro famiglie.
Paura del futuro. “Non è facile parlare di pace e di perdono – ammette il sacerdote – specialmente in questa situazione nella quale si fatica a tenere a freno sentimenti ed emozioni come quelli descritti prima. In fondo siamo umani. Nella società israeliana viviamo una mancanza di fiducia, non siamo liberi da questi sentimenti”.
“La differenza, per noi, la fa il messaggio evangelico che ci ricorda che siamo tutti fratelli e sorelle e che dobbiamo cercare il modo di vivere insieme senza cadere in una mentalità tribale. Questo è il contributo che da cristiani possiamo dare a questa società”.
Non solo preghiera ma “ricerca della convivenza qui, adesso e ora, nelle nostre famiglie, fra i vicini, nella consapevolezza che il mondo non gira intorno al nostro gruppo o Paese”. Ma c’è un’altra paura che attanaglia gli israeliani e con loro anche i cattolici di espressione ebraica, “quella del futuro”. “È vero – spiega padre Piotr – qui in Israele, purtroppo, siamo già un po’ abituati alle guerre. Ma vedo e sento, parlando con gli altri, che c’è incertezza per quello che potrebbe riservare il futuro anche prossimo. Nessuno può dire quanto durerà la guerra a Gaza, se ci saranno altri attacchi dall’Iran, se l’esercito entrerà o meno in Libano, se ci saranno attentati terroristici”.
“Parlare di futuro genera tristezza e senso di precarietà”.
Speranza: la risposta delle kehillot. La risposta delle kehillot a questa incertezza è contenuta nella Bolla con cui Papa Francesco ha indetto il Giubileo ordinario dell’Anno Santo 2025, “Spes non confundit”, la speranza non delude: “L’anno pastorale che abbiamo da poco iniziato è dedicato alla speranza – rivela il vicario -. Ci stiamo preparando al pellegrinaggio giubilare del prossimo anno a Roma, che vorremmo fare in agosto. Sarà un tempo per rinnovare le radici della nostra fede, per ‘respirare’ un po’ di aria fresca e nuova. Ci prepariamo a venire a Roma con eventi, iniziative pastorali, anche via Zoom, che hanno al centro la speranza cristiana come viene presentata nella Bibbia”.
Parrocchie, oasi di pace. Per padre Piotr anche così “si costruisce quell’oasi di pace che è la parrocchia. Ne sanno qualcosa i bambini, molti dei quali provengono dal mondo degli immigrati, soprattutto filippini, le cui madri hanno perso lavoro per la crisi economica, che hanno partecipato ai campi scuola estivi.
Nelle nostre comunità i fedeli, di qualunque idea politica, possono trovare rifugio, sostegno materiale, vicinanza. Non è un caso che tutti i nostri preti, dopo il 7 ottobre, abbiano scelto di restare al fianco delle loro comunità nonostante la paura. Le kehillot sono isole di speranza dove si prega in ebraico, dove si lavora per rafforzare il rapporto tra ebrei e cristiani per dare maggiore consapevolezza nella Chiesa delle radici ebraiche e dell’identità ebraica di Gesù e dei suoi apostoli”.
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