Di Giovanni M. Capetta

Così dice il Signore: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti” (Gioele 2,12). All’inizio del nostro cammino quaresimale, il Mercoledì delle Ceneri, abbiamo ascoltato queste parole del profeta nella prima lettura e sempre nella stessa liturgia della Parola, Gesù ci ha detto con chiarezza come vivere questo invito che da sempre la Chiesa propone ai fedeli, nel tempo forte dei quaranta giorni che precedono la Pasqua: “Quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 16-18). Come sempre accade quando lasciamo che la Parola di Dio penetri in profondità, questo passo evangelico smaschera non solo i farisei, a cui il Figlio di Dio si rivolgeva, ma anche ciascuno di noi. Se abbiamo la sufficiente onestà intellettuale per accostarci alla raccomandazione di Gesù, togliendoci una delle maschere che indossiamo nelle tante vite che attraversiamo, a casa, sul lavoro, in parrocchia… non possiamo negare che almeno una volta ci sia capitato di comportarci proprio nel modo stigmatizzato. C’è stato un lungo periodo della mia esperienza cristiana, prima come figlio e poi come marito e padre, in cui il digiuno assoluto il primo giorno di Quaresima e il Venerdì Santo era un must da rispettare con rigore giansenista…  Ma se guardo oggi a quelle situazioni, mi rendo conto di essere tante volte scivolato, con tragica ingenuità, nel sacrosanto mirino di Gesù. Chiuso ermeticamente in una stanza o comunque sussiegosamente isolato dal resto della famiglia, mi crogiolavo nell’ambizione di una perfezione solo apparentemente raggiunta. Un solipsismo sterile, un’ostinazione che tutto aveva tranne che quell’umile astinenza rivestita di profumo e sorriso proposta dal Vangelo. A cosa serve – se non a dimagrire di qualche invisibile grammo – non toccare cibo per ventiquattr’ore e poi magari aspettare la mezzanotte per aprire il frigorifero ed abbuffarsi di tutto quello a cui si è rinunciato fino a pochi minuti prima? Con tutto il rispetto interreligioso che oggi è indispensabile per ambire alla pace che il Signore ci invita a costruire fra i popoli, è quello che mi risulta – seppur con codificazioni popolari assolutamente giustificabili – vivono i fratelli musulmani nel periodo del Ramadan. Eppure ho potuto ammirare l’inconsapevole testimonianza di quei bambini siriani o nordafricani che – frequentando il doposcuola in parrocchia – hanno declinato ogni offerta di ghiotta merenda nei giorni di digiuno prescritti dall’Islam e mi sono chiesto quale abitudine al digiuno sia rimasta nei cromosomi dei nostri cuccioli di cristiani che forse non sanno più cosa significhi rinunciare ad alcunché di commestibile, ma anche ad ogni altro oggetto o benefit che l’opulenza pigra del nostro capitalismo decadente fa loro erroneamente considerare come un diritto acquisito e mai più negoziabile.

Ciò detto, siamo noi adulti i primi che non sappiamo profumarci la testa quando stiamo facendo uno di quelli che le nostre nonne chiamavano “fioretti”: un’espressione vezzeggiativa che – come tutto ciò che sa di passato – ha contribuito a derubricare anche il grande valore della rinuncia che vi era insito.

Eppure è la voce stessa di Dio che dovremmo fare nostra quando, nel libro del Deuteronomio, per bocca di Mosè, il Signore dice al suo popolo, che lo ha fatto vagare nel deserto per quarant’anni e ha voluto che sperimentasse la fame per nient’altro che conoscere e fargli conoscere il suo cuore. Quando sopportiamo una croce possiamo temere che il Padre si sia dimenticato di noi, se non addirittura cadere nella tentazione di credere che patiamo per una punizione divina, relegando la nostra fede neanche ai tempi di quella del Dio di Israele – che è sempre stato “lento all’ira” – quanto addirittura nel Pantheon di Omero, ovvero in balia dei capricci di divinità volubili e corrotte quanto e più di noi umani. Invece il Dio che ha il volto di Gesù è colui che, sulla barca in tempesta, se anche dormisse, una volta svegliato dai discepoli angosciati – li esorta per l’ennesima volta a non temere, placando anche la più violenta tempesta fuori e dentro di noi. E così, quando il Figlio dell’uomo guarisce la suocera di Pietro, o ogni altro malato e indemoniato, la sua azione liberatrice da ognuna delle nostri morti quotidiane (ancor prima della sora morte corporale) è un’opera di salvezza che dovrebbe indurci a non dubitare più del suo potere salvifico!

La vita di ognuno di noi vale il sangue di Cristo e se digiuno non è mai per fargli una qualche forma di omaggio (che bisogno ne avrebbe?) quanto per saggiare il nostro coraggio di seguirlo per la via stretta della Croce da cui Egli è passato prima di noi e per sempre. Sperimentare la fame fisica, non solo ci unisce ai milioni di fratelli che nel mondo, iniquamente, la subiscono ogni giorno (e non quando lo scelgono come noi), ma dovrebbe soprattutto far sperimentare ad ogni fibra del corpo e della mente che è solo di Gesù che abbiamo bisogno, del Suo pane che sazia per la vita eterna. Certo è difficile spiegare tutto questo ad un bambino, ma è solo tornando a questa verità che potremo essere testimoni credibili in un mondo che pensa di non avere più bisogno di Dio.

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