(Foto ANSA/SIR)

Bruno Desidera

Una crisi che pare senza fine. Una matassa sempre più aggrovigliata. Il Perù assiste da due mesi a una protesta sociale che ha paralizzato il Paese, sempre più spaccato tra il “centro” di Lima e l’enorme periferia della “sierra” andina, della “selva amazzonica”, dei grandi altipiani e delle profonde vallate, che solcano un territorio più grande di Italia, Francia e Germania messe assieme. Circa sessanta morti, centinaia di feriti, devastazioni, blocchi stradali, quasi quotidiani assalti ad aeroporti, istituzioni e imprese, 200 mila persone che sono, appunto, scese dalle Ande per “accamparsi” nella capitale. Di fronte, Istituzioni “di burro”, fallite e inconsistenti. È questo il bilancio, probabilmente ancora provvisorio, di queste settimane di proteste e violenze. Il maldestro tentativo di golpe del presidente “delle periferie”, il maestro e sindacalista Pedro Castillo, subito bloccato, ha scatenato la “rivolta”, in parte strumentalizzata da qualche gruppo violento, contro la nuova presidente Dina Boluarte, ex vice di Castillo, il suo Governo, e il Parlamento. Elezioni subito, è la richiesta dei manifestanti, che vogliono anche la liberazione dell’ex presidente, ora in carcere. Gli eccessi della Polizia nella repressione delle proteste, ormai abbondantemente documentati, hanno ulteriormente incendiato la situazione. Spetta al Congresso votare l’anticipo delle elezioni, che dovrebbero tenersi entro l’anno, e un appello in questo senso è giunto venerdì 3 febbraio dalla Conferenza episcopale peruviana.

La ribellione delle periferie ha cause profonde. Perché i popoli delle regioni periferiche si ribellano? Come uscire dallo stallo? Il Sir lo ha chiesto a due vescovi delle regioni del Sud, tra le più attive nelle manifestazioni. Due pastori che stanno, in pratica, “sul cratere del vulcano”, nell’epicentro del disagio sociale. “La proteste sono iniziate in seguito all’arresto del presidente Castillo, ma le cause sono in realtà molto più profonde, stanno in contraddizioni mai risolte”. A parlare è mons. Ciro Quispe, il vescovo della prelatura di Juli, città che sorge sulle rive del lago Titicaca, a pochi chilometri dal confine della Bolivia, nel sudest del Perù. Qui, alle elezioni del 2021, Pedro Castillo ha avuto percentuali bulgare, di circa il 90 per cento. “Nella zona andina vivono gli indigeni delle popolazioni Quechua e Aymara, qui soprattutto questi ultimi, una popolazione fiera, che abita una zona a cavallo di Perù, Cile e Bolivia, che si sente nazione. “Molti, in questi giorni, sono andati fino a Lima a protestare”. Ma la capitale è, in realtà, lontanissima, non solo geograficamente. Lo è sempre stata, in realtà. “In queste zone fino a qualche decennio fa ha prosperato il terrorismo di Sendero Luminoso. Quella stagione è finita, ma non del tutto. Il terrorismo non è stato vinto nella testa delle persone, e le raccomandazioni della Commissione della Verità che ha indagato su quanto accaduto in quegli anni non sono state attuate. Le regioni della periferia non si sono mai integrate, ci sono differenze, distanze di tradizione e lingua. Gli indigeni si chiedono perché devono obbedire a leggi che non sono scritte nella loro lingua”.

Regioni dimenticate, che credevano di aver trovato il loro “leader”, il proprio rappresentante, uno con il quale identificarsi. Pedro Castillo, appunto, il leader con il sombrero e l’abbigliamento eccentrico, sbarcato a Lima come un marziano, e ben preso rimasto invischiato in trasformismi, casi di corruzione, giravolte politiche, fino allo sconcertante epilogo.

“Ma da queste parti, Castillo è rimasto il leader contadino – prosegue mons. Quispe – ‘uno di noi’ andato alla conquista di Lima. In realtà abbiamo visto che questo non basta per risolvere i problemi, ma la gente pensa che sia stato boicottato, che sia colpa dei ‘limeños’, gli abitanti della capitale. Le cose non sono andate in questo modo, ma non si guarda in faccia la realtà. Così, aumenta il risentimento sociale, vera malattia di questo Paese. Sta salendo un vero e proprio odio”. Per certi aspetti, si tratta di un paradosso, poiché “la qui Boluarte è stata votata, anche se come vicepresidente, da quasi tutti, un anno e mezzo fa. Il Parlamento è stato eletto dai cittadini. E l’altro paradosso è che ci troviamo di fronte alla protesta di un popolo, ma senza una faccia, un leader, un riferimento. E questo è un altro grande problema”. La strada per una via d’uscita è stretta, ammette il vescovo, “anche noi, come Chiesa, siamo strattonati, a volte criticati. Ma stare dalla parte del popolo non vuol dire fingere di non vedere gli eccessi e le violenze di queste settimane, le devastazioni che non possono che essere frutto di menti terroristiche, i blocchi stradali che isolano intere zone del Paese, i caravan con targa boliviana che, come mi raccontano i parroci, arrivano dalla frontiera. Dall’altro lato, e su questo ho scritto una lettera aperta alla presidente Boluarte, la risposta della Polizia è stata eccessiva e finora il Governo non ha mostrato vera disponibilità al dialogo.

Non basta dare una disponibilità generica, ma bisogna indicare una data, un luogo, fare una proposta. Come ha spiegato molto bene nei giorni scorsi il nunzio apostolico, non si può prescindere da una seria riflessione, profonda, da un vero dialogo, non c’è altra strada”.

Dialogo sociale difficile senza un segnale politico. Ci spostiamo qualche centinaio di chilometri più a ovest, ma sempre nel sud del Perù. Mons. Reinaldo Nann, vescovo della prelatura di Caravelí, nella regione di Arequipa, è anche presidente della Caritas peruviana: “Nell’ultimo incontro nazionale – afferma – abbiamo dibattuto a lungo, e devo ammettere che c’erano idee diverse, a seconda delle zone di provenienza. Nel Paese c’è molta divisione, in tanti si sono sentiti per troppo tempo cittadini di seconda classe”. Un tessuto sociale frammentato e povero, quello descritto dal vescovo: “Qui, su 150mila abitanti, in 40mila lavorano nelle miniere illegali e informali”. La protesta sociale, “se chiede più equità, e lo fa in modo pacifico, ha tutto il diritto di svolgersi. Ma le cose cambiano se ci sono gruppi violenti. Al tempo stesso, anche chi lavora nella Polizia viene spesso da famiglie povere. Si tratta, il più delle volte, di poveri che si scontrano con poveri, la violenza fa danni terribili a tutti”. Per il futuro, l’idea di mons. Nann è che sia difficile costruire una nuova stagione con l’attuale classe dirigente, messa così pesantemente in discussione: “Non mi illudo certo che nuove elezioni (l’ultima ipotesi è di anticiparle a ottobre, ndr) risolvano i grandi problemi del Perù, ma almeno si spera che gli animi si calmino, che le strade siano percorribili”. I blocchi stradali, in effetti, “si stanno trasformando in un auto-blocco, alla popolazione non arrivano più generi di prima necessità, neppure il cloro per rendere potabile l’acqua”. L’auspicio è quello di un “dialogo sociale, che manca da troppo tempo, per certi aspetti da secoli. Ma serve un segnale politico. La Chiesa, è naturalmente pronta a fare la sua parte, anche se in questo clima rischia anch’essa di essere travolta dalla polarizzazione”.

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *