Di Michele Luppi

Un “buon samaritano” dal sorriso inconfondibile che ha saputo scrivere nel nord dell’Uganda, una pagina indelebile del “Vangelo della carità”. È questo il ritratto di padre Giuseppe Ambrosoli, il missionario e medico comboniano, che è stato beatificato domenica 20 novembre a Kalongo, villaggio dell’arcidiocesi di Gulu dove per 31 anni ha vissuto il suo apostolato trasformando un piccolo dispensario, aperto dalla suore comboniane, in uno ospedale punto di riferimento per l’intera regione. A presiedere il rito di Beatificazione, a cui ha partecipato una folla gioiosa e festante di circa 20 mila persone, è stato il nunzio apostolico in Uganda, l’arcivescovo Luigi Bianco. A lui è spettato l’onore di leggere la lettera apostolica di Papa Francesco con cui Padre Ambrosoli è stato proclamato beato: il Santo Padre concede che “il Venerabile Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, medico e sacerdote, che come buon Samaritano si fece instancabilmente prossimo ai bisognosi per curare le loro ferite del corpo e dell’anima, d’ora in poi possa essere chiamato Beato e che si celebri ogni anno il giorno 28 luglio”.

Da Como a Kalongo. Giuseppe Ambrosoli era nato a Ronago, in provincia di Como, il 25 luglio 1923, settimo figlio di Giovanni Battista Ambrosoli, l’iniziatore della famosa omonima azienda del “Miele Ambrosoli”.  La sua era una famiglia benestante, ma aperta e generosa in cui il giovane Giuseppe impara la solidarietà verso tutti. Ne darà prova da giovanissimo quando, poco più che diciottenne, si impegnerà per aiutare gli ebrei a oltrepassare il confine svizzero distante poche centinaia di metri dalla casa natale. Al termine della II Guerra Mondiale si iscrive a Medicina lauereandosi nel 1949. È proprio in quegli anni di formazione professionale e di animazione pastorale all’interno dell’Azione Cattolica che Giuseppe maturerà la sua vocazione fino alla decisione di entrare nella Congregazione dei Missionari Comboniani con la ferma decisione di voler essere medico in Africa. Qui passerà 31 anni distinguendosi per umanità e professionalità. Fino agli anni ’80 quando la sua salute iniziò a peggiorare. “In quegli anni – spiega il postulatore padre Arnaldo Baritussio –  nella terra di Acholi infuriava un violento conflitto armato. Fino all’ epilogo del 1987 quando è arrivato l’ordine di lasciare la Missione e di abbandonare l’ospedale. Allora le sue parole ai confratelli Missionari furono: “Coraggio, questo è il momento in cui bisogna capire perché siamo venuti qui”. Ambrosoli fu costretto a lasciare l’ospedale a cui aveva dedicato tutta la sua vita. Pochi mesi dopo, venerdì 27 marzo 1987, le condizioni dei suoi reni peggiorarono ulteriormente. Morendo sussurrò ai confratelli: “Signore, sia fatta sempre la tua volontà”.

I due altari.  “Sarebbe sbagliato – ha ricordato il Nunzio Bianco nell’omelia – considerare padre Ambrosoli come solo un uomo del fare. Trovava infatti nella preghiera e nell’eucarestia la sua forza”. Per Padre Ambrosoli, ha aggiunto, “c’erano due altari a Kalongo: l’altare dell’Eucaristia e il tavolo operatorio, così come ci sono le sue due mani che tengono l’Ostia e assistono un malato bisognoso di cure con la stessa riverenza e rispetto”.

Il suo motto, impresso sulle magliette di centinaia si fedeli presenti alla Beatificazione, era:

“Dio è amore e io sono suo servo per le persone che soffrono”.

Un ponte tra Africa e Italia. Per il postulatore Baritussio, padre Ambrosoli “ha tanto amato il popolo da essere accettato come uno di loro”. Una caratteristica che è stata sottolineata anche dal presidente ugandese, Yoweri Museveni, intervenuto alla Beatificazione. “Il Beato Ambrosoli è un beato europeo quanto ugandese”, ha detto. A sottolineare questa molteplice appartenenza è stata anche la Diocesi di Como dove i media diocesani hanno trasmesso la diretta del rito mentre nel pomeriggio il cardinal Oscar Cantoni ha presieduto in Cattedrale una S. Messa di ringraziamento. “Oggi, festa di Cristo re dell’universo, – ha spiegato il cardinale – è giorno di grande gioia e consolazione in tutta la Chiesa, nel mondo intero, per aver additato il nostro padre Giuseppe Ambrosoli come modello esemplare di discepolo di Gesù. La Chiesa ha intravisto in lui una forma significativa di vita cristiana, dentro la quale ogni cristiano può identificarsi per divenire testimone autentico del vangelo”.

Il seme che muore porta frutto. La sua vita donata all’Africa è come un seme caduto in terra che sta portando frutto. Non solo grazie all’ospedale, intitolato a padre Ambrosoli, e alla scuola di ostetricia che continuano il loro prezioso lavoro  – con il sostegno della Fondazione Ambrosoli – ma anche ai semi di riconciliazione che questa figura ha saputo costruire. Come dimenticare Lucia Lomokol la giovane mamma guarita miracolosamente il 25 ottobre 2008 nell’ospedale di Matany in Karamoja per intercessione del missionario (miracolo che ha spalancato le porte alla Beatificazione). Una donna karamojon entia storicamente in conflitto con gli acholi che vivono nella regione di Kalongo. “L’Ospedale di Kalongo e la Scuola per Ostetriche – ha concluso mons. Bianco – sono stati la sua vita e sono il suo monumento e la sua eredità. Questa eredità deve continuare e crescere anche con la collaborazione di tutti” .

(*) da Kalongo (Uganda)

 

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