Elio Boscaini

(foto Fondazione Ambrosoli)

Ma che senso ha, potrebbe chiedersi qualcuno, “beatificare” nel 2022 un missionario italiano, prete e medico in Africa? Giuseppe Ambrosoli è quel giovane dottore che, laureatosi in medicina e chirurgia, sceglie di consacrare tutta la sua vita a servizio degli ammalati in Africa, come prete. E là muore: ecco perché il rito di beatificazione avviene a Kalongo, ai piedi della “montagna del vento”, accanto al suo ospedale.

Sulla sua tomba una lapide ricorda che egli è stato “comboniano, sacerdote e dottore”. Ma il suo vero messaggio scolpito nel marmo è quello che ripeteva come un mantra: “Dio è amore e io sono il suo servitore per il popolo che soffre”. In Africa. L’Africa appunto. Per troppi è il continente impastato di guerre, epidemie e disgrazie varie, che si preferisce rimuovere e che ci allarma solo quando una qualche sua “disgrazia” arriva a disturbare il nostro quieto vivere. Ma è anche il continente che nasconde nel suo sottosuolo quei tesori (gas, petrolio, coltan…) indispensabili alla nostra economia e che quindi deprediamo.

Padre Giuseppe, per quel continente fatto soprattutto di giovani, sulla scia del fondatore del suo istituto ‒ quel Daniele Comboni che per gli africani, nel 19° secolo, sognava un avvenire luminoso ‒ ha donato tutto sé stesso, apportando la sua pietra alla costruzione di quel futuro. La sua “scelta preferenziale” l’aveva fatta in favore dei più poveri dei poveri, gli ammalati.

Scelta ripetuta e consapevole anche quando la sua fama di chirurgo era andata ben oltre l’Uganda. A quell’Uganda rurale e poverissima ‒ che aveva scelto come sua terra di elezione e luogo del suo servizio missionario, durato 31 anni (1956-87) ‒ rimane fedele, lontano dai grandi centri in cui si gioca il futuro di un paese. E là, giorno dopo giorno, fa sorgere quel grande ospedale che arriverà fino a 370 letti.

Nato in una famiglia “benestante”, il dottor Ambrosoli ha incarnato al meglio il vivere povero tra i poveri, ascoltandoli, accogliendoli, soffrendo con loro, gioendo se le cose andavano bene. Ogni persona, l’ammalato in primis, rappresenta per lui quel Cristo che si incarna nei poveri. Di loro ha accolto “il grido” fino a farsi carico anche delle loro contraddizioni. Dopo gli ultimi anni della colonizzazione inglese e i primi passi dell’Uganda indipendente e del suo sogno di “sviluppo”, ha sperimentato il marasma di un Paese caduto sotto la dittatura di Amin Dada. In quelle situazioni di esasperato contrasto tribale, senza discriminazione alcuna, tutti accoglieva, tutti curava e tutti difendeva: acioli o di altri etnie, soldati e ribelli, bianchi e neri. Un magistero eloquente di pacificazione e nonviolenza il suo, in
un tempo in cui la violenza aveva assunto connotazioni incontrollabili.

Padre Giuseppe conciliava serenamente il suo essere medico e missionario. Il fiuto della gente aveva colto il suo “mistero”: la cura di padre Giuseppe non si limitava al recupero fisico, cercava anche il benessere spirituale dell’ammalato, donando coraggio e sollievo. Il prete che era riteneva infatti l’intervento in favore del malato incompleto se non raggiungeva l’anima. Il lettino della sala operatoria altro non era per lui che la continuazione della mensa dell’altare: fra le mani non aveva solo pura materia, ma un essere vivente con cui entrare in empatia con tutto sé stesso.

Chi lo ha conosciuto è unanime nel testimoniare la sua costante disponibilità. Gli veniva da lontano, già da quando accompagnava clandestinamente profughi ed ebrei in Svizzera. Il sorriso che lo distingueva era contagioso e la prova che portava Dio nel cuore. E il suo linguaggio era quello dell’ottimista, pur ben consapevole delle enormi fragilità umane. Eccolo allora sempre il primo a cedere il suo posto se ne mancava uno; a intrattenersi con gli ospiti, anche dopo ore di sala operatoria, quando gli altri si defilavano…

Servire, servire sempre e tutti, in qualunque circostanza, era diventata la sua seconda natura. È così che faceva breccia nel cuore degli africani. Quegli acioli che hanno finito per considerarlo uno di loro. E che oggi in padre Giuseppe beato vedono riconosciuta la parte migliore di loro stessi. In lui si specchiano anche le centinaia, se non le migliaia, di dottori espatriati e il personale paramedico (e tra questi innumerevoli italiani e italiane) che all’Africa hanno fatto dono, e continuano a farlo, di un momento, a volte lungo anni, della loro arte e vita per lenire le sofferenze di una umanità a cui hanno inteso semplicemente ridonare dignità.

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