di Gianni Borsa

Apparente “normalità”, silenzio, insicurezza latente. È il clima che si respira a Lashkar Gah (ufficialmente 200mila abitanti), provincia dell’Helmand, nel sud dell’Afghanistan, a circa 600 chilometri da Kabul. Al Sir ne parla Leila Borsa, 32 anni, di Legnano (Milano), laurea in Lingue e poi in Infermieristica, quindi un master in Medicina d’urgenza e area critica. “Da febbraio – racconta – lavoro al centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency qui a Lashkar Gah. Ho deciso di vivere questa esperienza per crescere umanamente e professionalmente e per portare qui la mia esperienza e il mio vissuto; ho sempre pensato che questo ambiente potesse permettermi di vedere il mio lavoro da una prospettiva completamente diversa”. Aggiunge: “Considerando che quest’anno è stato il più intenso in termini di numero di pazienti ricevuti in questo ospedale, dall’inizio la missione è stata una sfida”.
Lavoro senza sosta.
 Determinazione e serenità accompagnano giornate intense, non esenti da preoccupazioni… “Le prime due settimane di agosto sono state difficili per tutti noi, nazionali (cioè personale afghano, ndr.) e internazionali (il personale proveniente da altri Paesi). Noi abbiamo vissuto e dormito in ospedale, molti dei colleghi nazionali hanno dovuto rimanere come noi in ospedale, lasciando la propria casa, anche perché le strade non era sicure e non era sicuro muoversi fuori dall’ospedale. Molti non hanno potuto raggiungere l’ospedale per recarsi al lavoro, mentre un’altra parte del personale ha lavorato senza sosta per giorni e notti”.Corsie piene di pazienti. In questi ultimi giorni Leila è apparsa in tv e su qualche giornale: l’avanzata dei talebani, dopo l’inspiegabile ritiro delle forze armate occidentali e la fuga del presidente Ghani, ha risvegliato l’interesse dei media italiani ed europei. L’operatrice di Emergency spiega: “sono venuta qui per formare il personale nazionale e per migliorare la qualità del lavoro, e ho finito per lavorare fianco a fianco con i colleghi afghani. Da inizio maggio, quando è iniziato il ritiro delle truppe americane, il nostro ospedale è costantemente pieno e lavoriamo al massimo della nostra capacità ricettiva”. Nelle ultime settimane, cioè da quando si sono intensificati i combattimenti, “il nostro lavoro è aumentato dato l’incremento del numero di pazienti e degli sforzi necessari per affrontare la situazione”.

Calma apparente. La descrizione di chi si trova “sul campo” trasmette con maggiore precisione ciò che si vive in queste ore in Afghanistan. “Prima la città era deserta. A partire da venerdì, quando le forze governative hanno lasciato ufficialmente la città, la situazione si è capovolta e un senso di calma apparente ha pervaso Lashkar Gah: non sentiamo più il rumore dei combattimenti, non sentiamo più i cannoni, non sentiamo più le bombe. Molti sono tornati in città, il traffico è ripreso e tanti sono tornati al lavoro che avevano dovuto lasciare”.“L’insicurezza nei confronti di questo nuovo assetto è però tanta e la gente che ha perso tutto si ritrova in un clima di incertezza a dover ricominciare da zero”.All’interno del presidio ospedaliero “i pazienti sono sempre molti, le ferite gravi, la sofferenza tanta; tuttavia – racconta ancora Leila – i sorrisi e i ringraziamenti per il lavoro svolto, da noi e soprattutto dai colleghi afghani, non mancano mai”.

La ricerca di normalità. La testimonianza si arricchisce di qualche importante particolare: “ricoveriamo bambini, giovani, adulti, donne, anziani, molti civili. Sono tanti i danni collaterali della guerra”. Le giornate “passano velocemente al lavoro; cerchiamo di mantenere una certa routinaria quotidianità, per quanto possibile in questo ambiente e in questo periodo: dal caffè del mattino, al giro dei reparti per gli aggiornamenti sui pazienti, ma anche sui colleghi e sulle loro famiglie”. Leila riferisce una nota tutt’altro che trascurabile:“le storie che ci raccontano sono la rappresentazione del vero Afghanistan in guerra”.Infine: “noi internazionali siamo un piccolo gruppo di tre persone, con me c’è un italiano che si occupa della logistica e il Medical Coordinator, infermiere serbo. Non c’è molto tempo per pensare alle preoccupazioni, lavoriamo molto e passiamo insieme il tempo libero che ci ritagliamo durante la giornata o la sera, se possibile. Si parla della situazione, di come organizzare la giornata e del lavoro in programma, ma anche di tutto ciò che non è lavoro e non è Afghanistan in guerra; si pranza e si cena insieme per mantenere quella normalità che ci permette di rilassarci e di affrontare serenamente e pieni di energia la giornata successiva”.

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