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Lotta agli abusi: “collegialità” e “sinodalità”

M.Michela Nicolais

“Collegialità” e “sinodalità”. Risiede in queste due parole, raccomandate da Papa Francesco fin dall’inizio del pontificato per qualunque opera di riforma, soprattutto, nella Chiesa, il segreto della “accountability”, cioè il dover rendere conto – anzitutto di fronte alle vittime, ma poi davanti a tutta la comunità ecclesiale e alla società – delle atrocità degli abusi commessi dai membri del clero nei confronti di minori. Se ne è parlato nella seconda giornata dell’incontro in Vaticano su “La protezione dei minori nella Chiesa”, cominciata con gli auguri al Santo Padre –in occasione della festa della cattedra di Pietro – dal moderatore dell’incontro, padre Federico Lombardi, e salutati da un fragoroso applauso dei 190 partecipanti. Per volere del Papa, è stata messa a disposizione dei partecipanti la documentazione ufficiale delle Nazioni Unite sui temi della lotta alla violenza contro i bambini, e in particolare l’ultimo Rapporto Onu in materia, “Toward a world free from violence”, unitamente ad una sintesi dell’ultimo Rapporto Unicef 2017, “A familiar face”.

(Foto Vatican Media/SIR)

“Nessun vescovo può dire a se stesso: ‘Questo problema di abuso nella Chiesa non mi riguarda’. Ognuno di noi è responsabile per l’intera Chiesa”.

Così il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha introdotto il tema della “accountability”. “Non si può ignorare che nella Chiesa abbiamo avuto difficoltà ad affrontare la questione dell’abuso nel modo giusto”, ha ammesso il porporato, che a proposito dell’iter da seguire nei casi di abusi ha esortato a coniugare il “centralismo romano” con la necessità di “un confronto tra la Curia Romana e le nostre Conferenze episcopali”. Poi il mea culpa:

“Dobbiamo pentirci e farlo insieme collegialmente, perché lungo il cammino abbiamo fallito”.

“Tutti i meccanismi per presentare denuncia di abusi o maltrattamenti nei confronti di un vescovo dovrebbero essere trasparenti e ben noti ai fedeli”. È uno dei suggerimenti pratici del card. Blase Cupich, arcivescovo di Chicago e membro del Comitato organizzativo, insieme alla necessità di

“rigettare categoricamente gli insabbiamenti” e alla proposta di creare “meccanismi di segnalazioni indipendenti” degli abusi, tramite una linea telefonica dedicata o un apposito portale web.

(Foto Vatican Media/SIR)

“Il coinvolgimento di esperti laici per offrire assistenza da ora in avanti diventa necessario per il bene del processo e il valore della trasparenza”, la tesi di Cupich, che per le Conferenze episcopali ha auspicato l’adozione di “norme speciali” e ha proposto l’istituzione di “un fondo comune a livello nazionale, regionale o provinciale per coprire i costi delle indagini dei vescovi”. E sulla collaborazione tra vescovi, religiosi e laici, attraverso la corresponsabilità, si è soffermata anche Linda Ghisoni, sottosegretario per la Sezione dei laici del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, proponendo, tra l’altro, di creare “commissioni consultive indipendenti” e di “rivedere la normativa del segreto pontificio”.

“Creare una cultura della denuncia, anche con appositi referenti”.

È uno degli argomenti su cui si sono confrontati i 190 partecipanti, ha riferito Paolo Ruffini, prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, durante il secondo briefing sui lavori. Interpellato dai giornalisti sulla diversità delle posizioni in merito all’obbligo di denuncia, nelle varie Conferenze episcopali, e sulla possibilità che tale atteggiamento venga considerato un’omissione, mons. Charles Scicluna, arcivescovo di Malta e segretario aggiunto della Congregazione per la dottrina della fede, ha risposto: “Dipende dalle leggi civili dei rispettivi Paesi. La questione della denuncia alle autorità civili è prioritaria”. A Malta, “c’è un’obbligatorietà in base alla quale, se non lo faccio, compio un delitto civile”. Anche negli Usa, ha detto il card. Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, presidente del Commissione per la tutela dei minori e membro del Consiglio dei cardinali, “siamo impegnati a denunciare sempre: c’è un obbligo morale a condividere con le autorità civili il nostro impegno per la tutela della sicurezza dei bambini. La crisi terribile degli abusi è nata proprio perché per tanto tempo i casi non venivano denunciati”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Non sono mancate, tra i giornalisti, domande sull’espressione

“tolleranza zero”.

Termine, questo, ha spiegato padre Lombardi, che “si riferisce a un modo d’intervenire, giustamente punitivo, nei confronti dei criminali”, ma che rappresenta “una parte molto limitata”, anche se “fondamentale”, dell’azione di contrasto agli abusi, di portata molto più vasta. Ad una domanda su come si concili la prima parre del punto 15 affidato dal Papa alla riflessione dei partecipanti – che recita: “Osservare il tradizionale principio della proporzionalità della pena rispetto al delitto commesso. Deliberare che i sacerdoti e i vescovi colpevoli di abuso sessuale su minori abbandonino il ministero pubblico” – il card. O’Malley ha risposto facendo notare che, nelle stesse intenzioni del Santo Padre, “si tratta solo di un punto di partenza, non ho mai pensato che sia contrario alla tolleranza zero”. A fare da sfondo, secondo O’Malley e secondo Scicluna, c’è l’affermazione pronunciata da Giovanni Paolo II il 23 aprile 2002: “La gente deve sapere che nel sacerdozio e nella vita religiosa non c’è posto per chi potrebbe far del male ai giovani”. “Si tratta di un principio che deve animare ogni decisione, come principio fondamentale”, ha commentato Scicluna: “È una constatazione prudenziale e di urgenza, che non ha niente a che fare con la pena. La questione prudenziale dell’idoneità al ministero non è una questione primariamente penale. La pena può anche essere espiatoria: non tolgo una persona dal ministero sacerdotale per punirla, ma per proteggere il gregge”.

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