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Documento sulla fratellanza. Mons. Coda (teologo): “Peso spirituale e politico che in prospettiva può rivestire”

M. Chiara Biagioni

“Alla base del Documento ci sono senz’altro preghiera e riflessione: lo si evince dal peso spirituale che esibisce e, di conseguenza, dal peso anche politico che in prospettiva può rivestire”. Abbiamo chiesto a mons. Pietro Coda, teologo, preside dell’Istituto universitario “Sophia” di Loppiano di aiutarci a leggere “dal di dentro” il Documento sulla fratellanza umana che è stato sottoscritto ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Ahmed Al-Tayyeb. Molti esperti (musulmani e cattolici) e osservatori del dialogo islamo-cristiano non hanno esitato a definirlo un documento “storico”. Sul viaggio di ritorno, il Papa – conversando con i giornalisti – ha raccontato che il testo è stato preparato “con tanta riflessione e anche pregando”. Si è “sviluppato in quasi un anno”, “rimasto a maturare”, “per non partorire il bambino prima del tempo. Perché sia maturo”.

(Foto: Siciliani-Gennari/Sir)

Mons. Coda, lei è un teologo e fa anche parte di Commissioni di dialogo. La sorprende questo metodo di lavoro vissuto nella preghiera e prolungato nel tempo? 
Non si tratta di un atto diplomatico congiunturale, ma di una dichiarazione di significato strategico. Presuppone, da un lato, il mettersi di fronte a Dio dei due partners per chiederGli, nella disponibilità sincera a obbedire al Suo volere: che cosa Tu vuoi da noi oggi? E, dall’altro, un attento discernimento, alla luce della propria rispettiva fede nel disegno di Dio sulla storia umana, del drammatico e per tanti aspetti cruciale momento che oggi attraversa l’umanità, per chiedersi insieme:

che cosa dobbiamo fare noi, oggi, per essere fedeli al disegno di amore di Dio?

Parlando sempre con i giornalisti, il Papa ha voluto precisare: “Dal punto di vista cattolico il documento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II”. Qual è il “punto” nevralgico su cui si snoda il Documento di Abu Dhabi?
Come ha scritto Benedetto XVI, i documenti del Vaticano II che, pur nella loro brevità, sono stati di fatto i più ricchi di conseguenze per la missione della Chiesa sono stati il Decreto Nostra Aetate sul rapporto tra la Chiesa e le altre religioni e il Decreto Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa. Due documenti che, idealmente, sono strettamente legati l’uno all’altro. Tanto che una delle rappresentazioni più eloquenti dell’immagine evangelica di Chiesa proposta autorevolmente dal Concilio – come lo ha sottolineato san Giovanni Paolo II – è stata quella che il mondo ha contemplato nella Giornata mondiale di preghiera per la pace ad Assisi nel 1986.

Il Documento siglato da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar ad Abu Dhabi segna un’ulteriore tappa in questo cammino di realizzazione del messaggio profetico del Vaticano II.

Il punto nevralgico l’ha sottolineato Papa Francesco nell’udienza generale di mercoledì scorso: “In un’epoca come la nostra, in cui è forte la tentazione di vedere in atto uno scontro tra le civiltà cristiana e quella islamica, e anche di considerare le religioni come fonti di conflitto, abbiamo voluto dare un ulteriore segno, chiaro e deciso, che invece è possibile incontrarsi, è possibile rispettarsi e dialogare, e che, pur nella diversità delle culture e delle tradizioni, il mondo cristiano e quello islamico apprezzano e tutelano valori comuni: la vita, la famiglia, il senso religioso, l’onore per gli anziani, l’educazione dei giovani, e altri ancora”. Se – per cristiani e musulmani – Dio è il Creatore di tutto e di tutti, noi siamo membri di un’unica famiglia e come tali dobbiamo riconoscerci.

È questo il criterio fondamentale che la fede ci offre per gestire la convivenza umana, per interpretare le diversità che sussistono tra noi, per disinnescare i conflitti.

Se questo è il punto che fa riferimento al Concilio, quali sono invece le novità presenti nel Documento?
La novità è quella che San Paolo VI sintetizzava nell’enciclica programmatica del suo pontificato, l’Ecclesiam suam, scrivendo che la missione della Chiesa, oggi, prende il nome di dialogo. Perché aprirsi all’altro, scoprire i valori di cui vive, camminare insieme e cooperare per la giustizia e per la pace significa testimoniare la pienezza di verità e di vita che, come cristiani, contempliamo e riceviamo da Gesù. Questo implica vivere la propria identità – direbbe Papa Francesco – nel “coraggio dell’alterità”. È la soglia che oggi ci è chiesto di attraversare. Solo così la fedeltà a Dio, in Gesù, si fa storia nuova, costruzione di una civiltà dell’alleanza che abbraccia nella pace e nello scambio dei doni la ricchezza delle differenze.

Bisogna aver fede che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio e che l’unica forza capace di trasformare il mondo è l’amore, l’amore di Dio.

Mons. Coda, il dialogo, soprattutto con l’Islam, è un dialogo ad oceano aperto. Come affrontare le onde alte di questo mare?
In questo spazio di apertura, di sincerità, di collaborazione si potranno sciogliere, con prudenza e discernimento, i tanti nodi che restano. La luce la dà Dio, e Dio è là dove c’è l’amore. Le religioni non sono un sistema chiuso, dato una volta per tutte, ma sono in cammino, crescono:

lo Spirito di Dio incalza e noi lo dobbiamo ascoltare e assecondare.

Il Papa ha detto: “Perché un Concilio abbia conseguenze nella Chiesa ci vogliono 100 anni, siamo a metà del cammino”. Quali prospettive apre questo Documento?
Le prospettiva sono enormi! … se sapremo cogliere e apprezzare lo spirito che anima il documento e interpretarne creativamente le proposte e le esigenze. Ne vedo di primo acchito soprattutto due.

In prima battuta, la prospettiva di educarsi ed educare a una cultura dell’incontro, della fraternità, della pace.

Si tratta di rivedere, in questa luce, i percorsi formativi e accademici nelle scuole, negli istituti di formazione, nelle università. Come ha scritto Papa Francesco nel suo Discorso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi: “Alla celebre massima antica ‘conosci te stesso’ dobbiamo affiancare ‘conosci il fratello’: la sua storia, la sua cultura e la sua fede, perché non c’è conoscenza vera di sé senza l’altro. Da uomini, e ancor più da fratelli, ricordiamoci a vicenda che niente di ciò che è umano ci può rimanere estraneo. È importante per l’avvenire formare identità aperte, capaci di vincere la tentazione di ripiegarsi su di sé e irrigidirsi”.

In seconda battuta si tratta di lavorare, a tutti i livelli, per la giustizia e la pace, due valori inscindibili.

Ancora Papa Francesco: “Le religioni siano voce degli ultimi, che non sono statistiche ma fratelli, e stiano dalla parte dei poveri; veglino come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti, siano richiami vigili perché l’umanità non chiuda gli occhi di fronte alle ingiustizie e non si rassegni mai ai troppi drammi del mondo”.

Le religioni dunque, insieme, profezia di umanità nuova!

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