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Papa Francesco: Non ira, ma linguaggio di autentica paternità

Di Marcello Semeraro

Due immagini per descrivere la proiezione della Curia dal suo centro “romano” verso le Chiese coi loro pastori e verso il mondo. La prima è desunta dall’organismo umano coi suoi cinque sensi; l’altra dal mondo delle comunicazioni: sono le “antenne” nella loro duplice funzione, trasmittente e recettiva. Il Papa le richiama per indicare due compiti della Curia romana: “Trasmettere fedelmente la volontà del Papa e dei Superiori”; e “cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo”.

Questo volto di estroversione della Curia romana ha la sua fonte nel magistero del Vaticano II, dove si legge: i dicasteri della Curia romana compiono il loro lavoro nel nome e nell’autorità del Romano Pontefice, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori (cf Christus Dominus 9). È un punto, questo, sul quale Francesco si diffonde nella seconda parte del discorso: quello dedicato al rapporto della Curia con le Chiese particolari e da qui con le Chiese orientali e poi l’attenzione al dialogo ecumenico e interreligioso.

La duplice funzione delle antenne è un altro modo col quale Francesco traduce il senso della “sinodalità”, tratteggiato nel fondamentale discorso del 17 ottobre 2015: “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare ‘è più che sentire’. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare”.

Nella direzione della ministerialità e del servizio, invece, si muove la sequenza d’immagini che rimandano ai cinque sensi: in analogia con l’organismo umano dove costituiscono il primo legame col mondo, essi aiutano a cogliere il reale e a collocarvisi. Il riferimento, in questo caso, è molto antico e raggiunge un testo, la Didascalia degli apostoli, che è del III secolo; esso, nel medesimo tempo, è vicino alla tradizione spirituale e, per Francesco, alla spiritualità ignaziana.

(Foto: Vatican Media)

La Curia romana ha un’indole ministeriale, ricorda il Papa e spiega: legata strutturalmente al ministero petrino, da esso trae un proprio carattere “diaconale”. Di un “primato diaconale” Francesco ha parlato nello scorso mese di ottobre, parlando ai padri e capi delle Chiese orientali cattoliche. Anche in questo linguaggio, però, c’è una radice classica e la si trova in san Gregorio Magno, che ebbe singolare predilezione per la formula “servo dei servi di Dio” la quale (e questa volta Francesco cita il suo immediato predecessore, Benedetto XVI) è ben più che una pia formula: si tratta, infatti, di un modo di vivere e di agire.

Diversamente dai precedenti discorsi natalizi alla Curia, questo del 2017 sembra avviare una nuova serie.

Il Papa lo dice così: “Avendo parlato precedentemente della Curia romana ad intus, desidero quest’anno condividere con voi alcune riflessioni sulla realtà della Curia ad extra, a cominciare dal rapporto della Curia con le Nazioni…”.

Anche questo, però, ha una sua linearità, perché coincide con un interesse fondamentale di Francesco, con un’attenzione il cui nome è “discernimento”.

È noto che per il Papa una necessità della Chiesa di oggi è “crescere nel discernimento, nella capacità di discernere” (Incontro coi gesuiti di Polonia del 30 luglio 2016). Se, dunque, Francesco parla di “rapporto con le Nazioni” (ricordando in proposito la costituzione della Terza Sezione della Segreteria di Stato, ch’è il più recente intervento in fatto di “riforma” della Curia romana), lo fa anche alla luce del principio conciliare della lettura dei “segni dei tempi” sottolineato dal passaggio di Gaudium et spes 11, riportato in nota per esteso.

Una Curia estroversa, per Francesco non vuol dire una Curia meno “romana”. Tutt’altro. È, invece, l’autentica vocazione della romanità.

Ecco, allora, che all’autocitazione di una Curia romana dove si apprende e respira in modo speciale la compenetrazione nella Chiesa tra l’universale e il particolare (“una delle esperienze più belle di chi vive e lavora a Roma”), Francesco unisce un’appassionata citazione congiunta di Dante Alighieri e del beato Paolo VI che invita a “scoprire come e perché ‘Cristo è Romano’”.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Collocandosi in questo respiro davvero molto ampio, Francesco non è, però, disattento dalla concretezza. L’analogia con il corpo e i suoi cinque sensi, ci dice, anzi, ch’egli è ben consapevole del mistero della Chiesa, la quale non è soltanto il “mistico corpo di Cristo”, ma anche, come direbbe sant’Agostino, un corpus mixtum: “Al presente il corpo di Cristo non è ancora purificato, come il grano sull’aia… quanti siamo nel corpo del Signore, e rimaniamo in lui in modo che anch’egli rimanga in noi, dovremo, in questo mondo e sino alla fine, vivere in mezzo agli iniqui. E non parlo degli iniqui che bestemmiano Cristo; poiché ormai non sono molti quelli che lo bestemmiano con la lingua, ma sono molti quelli che lo bestemmiano con la vita. È necessario dunque che viviamo in mezzo a loro sino alla fine” (Commento su Giovanni XXVII, 11).

Francesco la pensa allo stesso modo. Da qui il richiamo al pericolo che rende presente nella Chiesa chi tradisce la fiducia, o approfitta della sua maternità e la contestuale esortazione alla conversione.

Questa del Papa non è “ira”, ma espressione di quella medesima “pazienza, dedizione e delicatezza” da egli stesso richiamate per spiegare l’espressione “simpatica e significativa” del De Mérode sul tentativo di pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti. Il rischio che la passione del servizio venga meno e si spenga, d’altra parte, prima che del Papa è un forte richiamo evangelico. C’è, ad esempio, nella parabola delle dieci vergini, cui Francesco rimanda con una citazione di san Girolamo: “Divengono stolte quando non agiscono più secondo il fine loro assegnato”. E questo è linguaggio di autentica paternità.

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