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Inquinamento, manca una potente dimensione comunitaria

Marco Bonatti

“A peste, fame et bello…”. L’icona dei 4 cavalieri dell’Apocalisse (6, 1-8) è da sempre nell’immaginario come simbolo del “male di vivere”: perché fa parte del nostro destino sia subire gli eventi naturali sia patire le conseguenze dei nostri gesti. Oggi l’informazione istantanea planetaria fa il resto: quelli che apparivano come inspiegabili “castighi divini” ci sono rappresentati come conseguenze, matematicamente documentate, di certe scelte compiute dalle società o dai singoli individui.

È il caso, in questi giorni, delle polveri sottili che – come ogni autunno, ormai da qualche anno – strangolano la valle Padana. Sappiamo tutti della catena di inquinanti che finisce per stringersi intorno alle nostre gole: le emissioni nocive di automobili si sommano ai fumi prodotti dal riscaldamento delle case e dalla produzione delle fabbriche (quelle che sono rimaste…). Se non piove e non c’è vento, ecco l’assedio. Si discute molto sulle cause, delle PM10 come del riscaldamento globale del pianeta. Ma, come accade per molti altri problemi, da noi è troppo facile “buttarla in politica”: ricorrere, cioè, a un’impostazione ideologica che a priori condanna o giustifica le emissioni.

Si discute molto, anche, sui possibili rimedi. In questi giorni le città più colpite, a cominciare da Torino, hanno fatto ricorso ai protocolli già stabiliti scegliendo vari gradi di “rigore” per ridurre l’impatto nocivo delle emissioni. Primi a fermarsi i motori diesel del trasporto privato. Ma non è escluso che nei prossimi giorni, in presenza di nuovi sforamenti delle soglie di inquinamento, sia necessario ricorrere a provvedimenti anche più drastici.

Il fatto è che sui rimedi ci si arrabatta, senza che nessuno sia in possesso di vere soluzioni, tanto meno di formule magiche.

Il problema delle amministrazioni comunali è davvero squisitamente “politico”: occorre ridurre i danni da inquinamento, ma anche non creare disagi insostenibili ai cittadini. E ogni provvedimento dovrebbe essere preparato in un clima di confronto e dialogo, per ricevere il massimo consenso possibile (cosa che invece, appunto a Torino, non sta accadendo. Il sindaco 5 Stelle Chiara Appendino è stata accusata dal presidente Pd della Regione, Chiamparino, di aver adottato misure “esagerate” forse non solo in relazione al grado di inquinamento, quanto alla loro impopolarità).

Ma dietro i dibattiti sulle cause e sui rimedi rimane la realtà di fenomeni sempre più complessi che, in modi diversi, sfuggono non solo al nostro personale controllo, ma anche ai provvedimenti, alle leggi, alle direttive di tutte le istituzioni, dal piccolo Comune alpino all’Assemblea generale di Nazioni Unite… Non i terremoti e gli uragani: si pensi invece alle “ricadute” di certi eventi come un attacco informatico a qualche server. Gli effetti di quell’azione rimbalzano istantaneamente in tutto il mondo, grazie alla connessione globale della rete – quella stessa rete che ci consente di parlare via Skype col figlio in viaggio nel deserto australiano; quella stessa rete che ha ci reso “turisti totali”, o grazie alla quale giochiamo al “trading on line” e pensiamo di guadagnare con i bitcoin. Lo stesso vale per le malattie epidemiche o contagiose: basta che uno salga su un aereo portandosi addosso Ebola… La natura stessa, poi, moltiplica le complessità in relazione diretta coi “progressi” della scienza e delle tecnologie.

Si direbbe che, cercando continuamente “assicurazioni” e valutando la vita solo in termini di rischi e guadagni ci allontaniamo sempre di più dal “senso” delle cose e della vita stessa.

Il fatto è che il progresso scientifico e tecnologico ha portato complessità prima sconosciute nelle nostre vite. E siamo ben lontani dal riuscire ad adeguare leggi ed abitudini ai ritmi che le macchine rendono possibili. È questa una delle ragioni, secondo Marc Augé, per cui sentiamo addosso la sensazione di essere senza futuro: da una parte siamo sempre più “vecchi” rispetto al mondo che si aggiorna; e dall’altra soffriamo senza darci ragione per una società che “cade a pezzi” senza che il mondo nuovo – quello di un’umanità a dimensione planetaria – appaia ancora al nostro orizzonte.

La percezione della complessità moderna non significa che non ci sia nulla da fare, anzi. La “società della conoscenza” è appunto quella che sta costruendo nuove mentalità di approccio al cambiamento; e i “comportamenti virtuosi” a cui possiamo educarci sono ancora in gran parte da scoprire (si pensi – ed è solo un esempio fra i molti possibili – ai progressi, anche quantitativi, compiuti in materia di smaltimento dei rifiuti domestici e urbani in questi ultimi anni, almeno nei Paesi industrializzati).

Ma queste scelte, per essere forti, convincenti, incisive hanno bisogno esattamente di ciò che oggi manca: una potente dimensione comunitaria, la consapevolezza che siamo tutti corresponsabili della vita su questo pianeta.

È infatti nelle relazioni sociali, nella mentalità delle persone che il ritardo è più difficile da colmare; perché il benessere materiale ci ha spinti ancor più verso l’individualismo, che identifichiamo con la nostra libertà personale. Se il nostro piacere è la misura del mondo, difficilmente saremo disposti a un sacrificio: bisognerà obbligarci… Ed è qui che si torna ai 4 cavalieri dell’Apocalisse: perché la peste, la fame, la guerra e la discordia sono accompagnate da un quinto cavaliere – invisibile, ma sempre più presente: la paura.

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