X

La Passione di Amatrice si consuma tra le macerie

Di Daniele Rocchi

“Nessun male viene da Dio! Dio non vuole il male dei suoi figli, ma lo condivide, solidale con tutte le vittime di ogni ingiustizia”. È cominciata con queste parole la Via Crucis nella zona Rossa di Amatrice: 14 stazioni, comprese tra l’ospedale “Francesco Grifoni”, gravemente lesionato dal sisma del 24 agosto e in via di demolizione, e la Chiesa simbolo di sant’Agostino, di cui resta in piedi solo la parete destra puntellata da un castello di tubi innocenti. Poco più di mille metri per ripercorrere, nel giorno di Venerdì Santo, la passione di questa terra e della sua gente ferita, iniziata il 24 agosto e di cui oggi è impossibile vederne la fine. A portare la Croce, per tutto il tragitto, una famiglia terremotata, tra letture, meditazioni, preghiere e canti. Subito dietro un centinaio di amatriciani, composti, dignitosi nella loro sofferenza, e in mezzo a loro il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, mons. Paul Tighe, segretario aggiunto del Pontificio Consiglio della cultura, e il Commissario straordinario per la ricostruzione Vasco Errani. A fare da sfondo il silenzio delle macerie che hanno sepolto persone e luoghi, un tempo familiari, davanti ai quali la comunità dei fedeli si è fermata per meditare le stazioni. Davanti al benzinaio, al supermercato, alla casa delle suore, all’Hotel Roma, alla Torre civica, al ‘Palazzo rosso’ e così via fino a sant’Agostino.

Il sisma pesa come la condanna di un innocente, è risuonato nella Prima Stazione. “Dio è indifferente della sorte dei giusti? O ancor peggio sono questi vittime di un sadico capriccio divino?” “Domande ineludibili” ma dalla risposta certa:

“Dio non vuole il male dei suoi figli”.

Il silenzio di Gesù insegna “l’arte di vivere con compostezza e con dignità il tempo della prova”, quella del terremoto. Che vuol dire anche portare la Croce, come ricorda la Seconda Stazione. “Ogni immane tragedia si supera coltivando il germe dell’amore”. La Croce si fa largo tra le macerie rimosse. Si medita “Gesù che cade la prima volta” (III stazione). Il ricordo del crollo delle case nel sisma torna prepotente, “l’orologio della torre fermo alle 3.40 sembrava avesse fatto scadere il tempo dei nostri progetti. Perché? Perché proprio a noi?”. Il bisogno di trovare un senso a tutta questa sofferenza. Ancora la Croce è la risposta:

“Se il Signore non fosse stato con noi, le macerie avrebbero sepolto anche il nostro futuro. L’amore ha lenito il dolore, la solidarietà ci ha rimesso in cammino”.

Solidarietà che ha anche il volto della Chiesa, incarnato dall’immagine di Gesù che incontra Maria mentre sale al Calvario (IV stazione). “Maria è segno di una Chiesa che sa essere madre amorevole, che non abbandona i suoi figli nel tempo della prova”. Si continua a salire, fin quasi l’ingresso in paese. Tocca a Simone di Cirene (V Stazione). Quella di “portare gli uni i pesi degli altri è la logica di un amore che si scopre al servizio. Condividere la sofferenza di qualcuno significa moltiplicare l’amore”. Il pensiero corre ai tanti volontari accorsi subito dopo la prima scossa, perché

“il mondo non è abitato solo da indifferenti o peggio da carnefici”, ma “ci sono molti che aiutano Dio a sopportare lo strazio di molte vite umiliate.

Noi ne siamo testimoni”. Testimoni anche di gesti coraggio, come quello della Veronica che asciuga il volto di Gesù (VI Stazione) quando davanti a Lui sofferente “nessuno si fa avanti, nessuno rischia. Ieri come oggi: ingiustizie, abusi, violenze e corruzioni si consumano con la complicità di una omertosa indifferenza”. La Croce di Amatrice prosegue verso il Calvario e si avvicina ad uno dei suoi simboli, la Torre civica. Gesù cade la seconda volta (VII stazione), poi la terza (IX), in mezzo l’incontro con le donne di Gerusalemme che piangono su di lui (VIII).

“Tre grandi scosse hanno fatto tremare questa terra. Tre volte Gesù cade e si risolleva.

Nella sua pasqua a tutti è dato di rimettersi in piedi. C’è ancora futuro”. Parole che dicono la grande fede della gente dei monti della Laga come anche di un dolore che “svalica” queste vallate, e “coinvolge milioni di uomini come noi che hanno perso affetti, casa, lavoro; non siamo i soli a piangere”. Davanti la Torre civica, guardando il suo orologio fermo la gente si riscopre “nuda, spogliata di ogni cosa: i vestiti, la casa, gli affetti”. Come Cristo, spogliato delle vesti (X), tirate a sorte tra i soldati romani. Gli sciacalli di un tempo e quelli di oggi sorpresi a rubare tra le macerie. Forte il richiamo alle cose che devono ricoprire l’uomo: “L’onore, la dignità, la forza d’animo, la responsabilità, il rispetto per sé e per gli altri, la libertà di riprendere in mano il proprio destino. Nudi sì, ma pur sempre uomini”.

La  strada stretta dalle macerie fa intravedere la fine del percorso, la chiesa di sant’Agostino. Gesù si è lasciato inchiodare alla croce (IX) “perché nessuno dubitasse del suo amore”. Amare fino alla morte (XII): morente sul suo patibolo, Cristo  “poteva maledire Dio, oppure a Dio affidarsi in un gesto di estremo abbandono”.

La tragedia del terremoto è “un grande bivio per tutti. Può rendere cattivi, insoddisfatti, amari, pessimisti. Oppure può rendere più forti e audaci. Il terremoto ha messo sottosopra ogni cosa: da tragedia può diventare una opportunità”.

Gesù non è inchiodato alla croce per sempre. Viene deposto (XIII) e messo nel sepolcro (XIV). Tra le macerie riaffiora la speranza che “la croce che abbiamo sulle spalle prima o poi possiamo lasciarcela alle spalle e sarà l’opera di Dio”. L’attesa, adesso, è tutta per il “grande terremoto”, quello “benefico dell’amore di Dio”, che fece rotolare via la pietra del sepolcro. Il pensiero e la preghiera corrono alle 299 vittime del sisma: “Corpi ai quali non abbiamo neppure potuto dare i segni più teneri dell’umana pietà. Quanti corpi sepolti a pezzi, tanto martoriati da essere irriconoscibili. Dalla morte rinasce la vita per i nostri cari e anche per noi, perché Dio fa nuove tutte le cose”.

Parole riprese anche da mons. Pompili, nella sua meditazione finale: “La speranza non è una botta di ottimismo, né si regge sulle fragili spalle delle promesse umane. La speranza è il volto tumefatto del Salvatore che continua a darci fiducia”. “Abbiamo vissuto un segno forte di fede – dice emozionato il parroco di Amatrice don Savino D’Amelio – in un tempo di Calvario, che non importa se sarà lungo o breve, perché camminiamo verso una meta che è la Resurrezione e la rinascita.

Il Sepolcro è rimasto chiuso solo tre giorni”.

Categories: Notizie dal mondo
Redazione: