Di Diego Fares

Scegliendo il nome di Francesco, il nostro Papa Bergoglio ha teso un ponte senza precedenti (i papi, scegliendo il nome, tendono un ponte a un predecessore). Giovanni Paolo II, fedele all’intuizione di Giovanni Paolo I, ha voluto unire nel suo nome i due papi del Concilio: Giovanni XXIII e Paolo VI; Benedetto XVI ha teso la mano a Benedetto XV, che ha definito “profeta della pace”: un Papa poco conosciuto perché ha dovuto governare la Chiesa durante gli anni della prima guerra mondiale.

Come fanno i bambini quando devono saltare una pozzanghera, prendendo lo slancio dopo aver fatto un passo indietro, Francesco ha preso lo slancio cercando un solido fondamento, non dieci o cento, ma ben ottocento anni fa. In quel primo quarto del XIII secolo, quando Francesco ha fatto propria la Gioia del Vangelo ed è uscito ad annunciarlo in povertà e semplicità di cuore a tutte le creature. In base alla distanza all’indietro che si è preso per iniziare il suo ministero, si può misurare l’orizzonte verso il quale tendono il suo desiderio e la sua speranza.

“Uomini con desideri”, così s’intitolava una conferenza che Bergoglio in qualità di padre provinciale dei gesuiti, ci ha dato alla fine degli anni ‘70, in cui diceva fra l’altro:

“Alcune opere apostoliche hanno la caratteristica di farci sentire in modo particolare la vastità e la profondità insondabili in cui si colloca il piano redentore di Dio e la miopia di tutti i nostri piani e degli sforzi che facciamo per esserne all’altezza. Proprio lì dove sentiamo di non farcela più, e che possiamo fare poco più di quello che già abbiamo fatto, è dove … nasce la possibilità di desiderare. È come se, proprio quando ci rendiamo conto dei limiti della nostra azione, ci sforzassimo di andare un po’ oltre, precisamente fino a dove non arriviamo, con la buona volontà dei nostri desideri” (“Reflexiones espirituales sobre la vida apostólica”, Bilbao, Mensajero, 2013, 63-64).

Bergoglio citava inoltre la Lettera di sant’Ignazio agli studenti di Coimbra, in cui dice loro che “durante gli studi possono aiutare il prossimo con santi desideri e preghiere”. E anche se le preghiere non possono essere molto lunghe, “possono compensare il tempo con i desideri”.

Questo è Francesco.

Queste riflessioni sul desiderio mostrano la sua grazia e la sua indole. Forse un po’ ingenuamente, in quanto non tutti noi, quando abbiamo raggiunto il limite e “sentiamo di non farcela più, e che possiamo fare poco più di quello che già abbiamo fatto”, non tutti noi, dicevo, desideriamo che nasca “la possibilità di desiderare”. Diamo libero sfogo alla fantasia e alla possibilità di desiderare soltanto quando siamo veramente innamorati. In caso contrario, se si tratta solo di adempiere un dovere, spesso quella che prevale è l’impossibilità di agire e la scelta di evitare l’ostacolo, passando a qualcos’altro.

“I desideri sono rivelatori del nostro cuore”, diceva Bergoglio: “Dimmi come sono i tuoi desideri e ti dirò che cuore hai…” ovvero, qual è il tuo tesoro. Perché “desiderare è per il nostro cuore come respirare, e ciascuno dei suoi desideri è come le sue pulsazioni segrete. Il cuore si esprime nei suoi desideri” (“Reflexiones espirituales sobre la vida apostólica”, Bilbao, Mensajero, 2013, 63-64). E faceva una distinzione che resta essenziale: “I desideri, oltre che rimpianto di ciò che non abbiamo, sono pre-sentimenti di ciò che avremo. I nostri desideri possono risultare illusioni, ma anche rivelazioni. Rivelazioni di ciò che Dio vuole che noi gli chiediamo perché già ce lo ha concesso. Allora, il contenuto dei nostri desideri si trasforma in simboli (…) che nascondono delle realtà, mentre allo stesso tempo le promettono” (“Reflexiones espirituales sobre la vida apostólica”, Bilbao, Mensajero, 2013, 63-64).

Rimaniamo un momento su quel “perché già ce lo ha concesso”.

Il popolo fedele di Dio – che vive l’esperienza del pellegrino in tutti i popoli – sa leggere, nei gesti simbolici di Papa Francesco, la profondità dei suoi desideri.

E discerne bene quando li interpreta, non con le mille categorie fantasiose degli scribi e dei farisei attuali (che Dio fa impigliare nelle loro stesse astuzie), bensì come risposte – semplici e oneste risposte – alle grazie che lo Spirito ha già concesso alla Chiesa in questo tempo. Grazie che continuano a riversarsi sin dai tempi del Concilio – nella sorgente sempre antica e sempre nuova della Chiesa – e che, come quel tesoro nascosto di cui parla Gesù nel Vangelo, avevano bisogno di un uomo che le scoprisse e che, facendo leva sulla gioia che un tesoro così dà a chiunque, ci esortasse, come ha fatto Francesco d’Assisi nel suo tempo, a venderlo in blocco per acquistare il campo.