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Gesuiti: “Riconciliazione, la prima sfida”. Parla il ‘Papa nero’ (ma non chiamatelo così)

Zenit di Salvatore Cernuzio

Perché è stato eletto? “Non lo so”. Come governerà la Compagnia? “Non è ancora chiaro neanche a me”. Cosa le piace della Compagnia di Gesù? “Tutto”. E la definizione di Papa Nero, le piace? “No”.

Il nuovo Superiore generale dei gesuiti, il venezuelano padre Arturo Sosa Abascal, risponde di getto, sorridendo sotto quei baffi che tanto hanno attirato l’attenzione pubblica, ai giornalisti che lo incontrano per la prima volta nell’Aula della Curia generalizia che, il 14 ottobre, ha visto la sua elezione durante la 36esima Congregazione Generale. Accanto a lui, padre Federico Lombardi, assistente ad providentiam e consigliere generale, e il portavoce padre Patrick Mulemi.

Il neo preposito, il primo non europeo nella storia della Compagnia di Gesù, si mostra cordiale con la stampa con cui auspica di instaurare “un rapporto frequente e una comunicazione genuina”, e si dice “sereno, sorpreso e grato al Signore” per l’elezione a capo dell’Ordine religioso più numeroso e diffuso del mondo, con circa 17mila aderenti. “Come governerò la Compagnia non è ancora chiaro neanche a me”, aggiunge, “sento, però, di aver bisogno di aiuto. Non è una cosa che posso fare da solo”. 

In effetti sono numerose le sfide che, in un mutato contesto socio-culturale come quello attuale, interpellano la congregazione fondata da Sant’Ignazio chiamata a “restare indietro” per servire il Papa e la Chiesa. Padre Arturo ne enumera alcune: dialogo interreligioso, povertà, rifugiati, flussi migratori “che non sono solo i profughi ma tutte le persone che vanno da una parte all’altra in cerca di una vita migliore”.

Tutti ambiti in cui i gesuiti intervengono attraverso un servizio che si poggia su “due gambe”: la fede e la profondità intellettuale. La fede per “cercare l’impossibile”, spiega Sosa, richiamando la sua prima omelia nella Chiesa del Gesù, e la profondità intellettuale, intesa come “conoscenza culturale”, perché “se non si pensa quello che si fa non è possibile che l’impossibile cambi”.

“Cercare l’impossibile è una missione cristiana, un modo di esprimere la fede”, sottolinea infatti il Superiore generale. “Quando si fa un’analisi della situazione del mondo o, ancora peggio, della storia del mondo si può diventare pessimista e pensare: ‘Non c’è niente da fare’, perché i poteri militari, del narcotraffico e della tratta delle persone sembrano imbattibili”. Invece, “chi ha fede è una persona capace di sperare l’impossibile” e di credere “che è possibile avere un mondo diverso, libero dai traffici, dove le persone siano considerate persone, dove ci sia una economia solidale e stili di vita per cui tutti abbiano da mangiare ogni giorno, possano andare a scuola e avere un tetto sopra la testa”. 

In particolare, il Preposito individua nella “riconciliazione” l’obiettivo principale dell’opera della Compagnia di Gesù: riconciliazione “tra gli uomini, con Dio e anche con il Creato”, perché “siamo così feriti da mettere in pericolo il pianeta Terra”. “In tutte le regioni del mondo si sente questa spaccatura, questa ferita profonda che ci divide e si sente anche di fronte a situazioni gravi”, afferma: in Siria come in Iraq o nel Venezuela dal quale proviene, dove – osserva – “la situazione è molto difficile”.

“Non si capisce cosa accade in Venezuela se non si pensa che il Paese vive della rendita petrolifera, e questa rendita la amministra lo Stato” sottolinea padre Arturo, per lungo tempo studioso e analista della politica del suo Paese. “In una società democratica sono i cittadini che con il loro lavoro mantengono lo Stato. In questo caso di rendita petrolifera gestita dallo Stato è quest’ultimo che mantiene la società”. E in un momento in cui gli introiti da petrolio sono in calo, “oggi la società è mantenuta male dallo Stato e questo provoca grande sofferenza”.

A ciò, rileva padre Sosa, si aggiunge il modello politico del comandante Chavez, proseguito dal presidente Maduro, che ha contribuito all’attuale crisi e contro cui si scontra l’opposizione. Per il Superiore generale è dunque, “necessario costruire un dialogo”: “Lo vuole gran parte della società venezuelana, che non vuole più neanche la violenza che esiste oggi nel Paese”, ma la riconciliazione.

“Il regno di Dio non può essere presente tra noi se non ci riconciliamo”, afferma infatti il preposito. “Tutti noi possiamo contribuire con un piccolo sforzo” ed è quello che la Compagnia del Gesù “fa ogni giorno”, investendo “tempo, energie, persone con un lavoro intellettuale di formazione e ricerca”. Un investimento – chiarisce – che “non è mirato ad avere titoli o riempire muri di diplomi accademici” ma “per avere due gambe salde su cui camminare”.

Con queste “due gambe” i gesuiti si sono avventurati anche in Cina, dove attualmente svolgono “un impegno speciale” attraverso “un doppio lavoro”. Il primo nella Cina continentale, dove 10/12 gesuiti provenienti da Europa e America insegnano lingue, economie, scienze sociali nelle Università statali cinesi. Attività, questa, autorizzata dal Governo cinese che invece proibisce qualsiasi tipo di lavoro pastorale o spirituale. La seconda opera si divide invece tra Taiwan, Hong Kong e Macao; lì, in particolare, i gesuiti svolgono una formazione teologica in un istituto che conta circa 100 allievi che si preparano al sacerdozio.

Tuttavia “vogliamo avere più vita in Cina” afferma il Papa nero, che rigetta questa espressione perché – dice – “i gesuiti fanno un servizio a un altro livello rispetto ai vescovi e al Papa. Cerchiamo di fare un servizio indietro non di stare in prima fila, in modo che possano servirsi delle nostra capacità”. Il tutto senza perdere di vista “il senso della nostra missione: servizio della fede e promozione della giustizia, tenendo conto del dialogo e della diversità culturale e delle questioni umanitarie dei nostri giorni”.

La strada che la Compagnia vuole percorrere in questa sua nuova fase è quella indicata da Papa Francesco: essere, cioè, una Chiesa “in uscita”, capace di “hacer lío” e “non avere paura di buttarsi in fondo ai conflitti degli esseri umani”.

A proposito del Pontefice, il confratello Sosa spiega di averlo conosciuto per la prima volta durante la 33° Congregazione generale del 1983, quella che segnò lo storico passaggio di consegne da padre Pedro Arrupe a padre Peter Hans Kolvenbach. Seguirono altri incontri, in Argentina, quando Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires, e a Roma, dopo la nomina di padre Arturo nel 2014 a delegato per le Case e le opere interprovinciali della Compagnia di Gesù. Un rapporto, dunque, di lunga data e positivo. D’altronde con Francesco è facile, dice il preposito: “Con lui si entra subito in comunicazione”.

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