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Pokemon go: la realtà aumentata di un gioco che distrae dalla realtà

 

“Pokemon Go” è il gioco dell’estate. “È difficile pensare ad un’altra app che abbia raggiunto tali livelli elevati di notorietà in appena una settimana dalla sua apparizione”, ha scritto sul “Time”, Tim Bajarin, uno dei più competenti “futurologi” americani.

Il gioco si basa su una tecnologia non nuovissima che si chiama “realtà aumentata”. Già negli anni Quaranta del secolo scorso si parlava di “augmented reality” come possibilità di leggere, tramite una schermata posta in sovrimpressione, i dati su un interlocutore posto di fronte. Dalla letteratura alla sperimentazione tecnologica vera e propria, le prime applicazioni di realtà aumentata sono comparse negli anni Ottanta. Dopo il Duemila e con la diffusione sempre più invasiva di telefoni “intelligenti”, si è molto discusso delle possibilità didattiche o informative legate alla “augmented reality”: inquadrare un monumento con il proprio smartphone per avere tutte le informazioni sulla storia e sull’architettura, per esempio. Nonostante le potenzialità, però, questa tecnologia è rimasta negli angoli meno frequentati del mercato. Fino all’esplosione del fenomeno di “Pokemon Go”.

“AR (Augmented Reality) svolge un ruolo molto minimale in questo gioco. Si utilizza la fotocamera per un esperienza AR solo quando si va a prendere un Pokémon virtuale. Non per minimizzare l’aspetto AR del gioco anche perché è vero che sta dando a molti milioni di persone il loro primo assaggio di AR”, ha scritto Tim Bajarin.

Quello della “realtà aumentata”, però, è diventato fin da subito un paradosso semantico, tipico di questa nostra era.

Alcuni attivisti siriani, che cercano l’attenzione dei media sul dramma dei bambini intrappolati in aree colpite dalla guerra in corso, hanno deciso di inserirsi nella scia di notorietà globale di “Pokemon Go”. Sui social network sono apparse foto di ragazzini e bambini che mostrano disegni con i personaggi di Pokemon. Come nel gioco, chiedono di essere trovati e salvati: “Sono di Kfarzita, venite a salvarmi!”, oppure “Io sono di Kfarnabbude, salvatemi”.

I primi messaggi provengono da una località della regione nord-occidentale di Idlib da mesi martellata giornalmente da bombardamenti aerei russi e governativi.

In prima linea c’è il gruppo Revolutionary Force of Sirya Media Office, dove si possono trovare tutte le foto seguite da un appello, #PokemonInSyria #PokemonGO #PrayForSyria… “Loro, i bimbi, con un cartello in mano che raffigura un Pokemon, un mostriciattolo che tanti di loro neanche avevano mai conosciuto prima d’ora. Loro che sono nati e cresciuti con il vero mostro, quello della guerra, con tutto l’orrore che porta con sé”, ha scritto Mirella D’Ambrosio sulla pagina “Sociale” del “Corriere della Sera”. Un vero e proprio paradosso culturale ed etico.

Nella metropolitana o a casa, passiamo ore e ore chini sugli schermi dei nostri smartphone, accantonando o ignorando la realtà che ci circonda. La “realtà aumentata” dei Pokemon digitali ha dato un nuovo contributo a questa sindrome collettiva di dissociazione dalla realtà. Secondo Tim Bajarin, ci sono tre aspetti interessanti da sottolineare.

Il gioco, spiega, si basa sui dati di Google Maps e sulle informazioni che spontaneamente e automaticamente gli utenti inviano al sistema. Si tratta di un passo in avanti verso una condivisione funzionale fra realtà e virtualità digitale.

Il secondo dato interessante è il ruolo del marchio nella diffusione del gioco. Pokemon era già noto in tutto il mondo fin dalla fine degli anni Novanta. “Pokemon Go” non avrebbe avuto lo stesso successo con un altro nome.

Il terzo aspetto è legato alle possibilità commerciali. La “caccia” digitale dei piccoli mostri (Pokemon è la contrazione di “pocket monster”, piccoli mostri) potrebbe portare gli utenti dentro a un negozio con speciali offerte per i giocatori. Si tratta solo di alcuni spunti ma sono sufficienti a capire quanto la nostra realtà sia sempre più intrecciata con la “realtà aumentata” proposta da questo gioco. Un aumento virtuale di realtà dove, però, speriamo di non perderci.

Le foto dei bambini siriani sono lì a ricordarcelo. In “Vultum Dei quaerere”, Papa Francesco ha scritto: “Nella nostra società la cultura digitale influisce in modo decisivo nella formazione del pensiero e nel modo di rapportarsi con il mondo e, particolarmente, con le persone. Questo clima culturale non lascia immuni le comunità contemplative. Certamente questi mezzi possono essere strumenti utili per la formazione e la comunicazione, ma vi esorto a un prudente discernimento affinché siano al servizio della formazione alla vita contemplativa e delle comunicazioni necessarie, e non occasione di dissipazione o di evasione dalla vita fraterna in comunità, né danno per la vostra vocazione, né ostacolo per la vostra vita interamente dedita alla contemplazione”.

 

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Sara De Simplicio: