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Imam Layachi Kamel, “non chiamateci musulmani moderati”

M. Chiara Biagioni

Non vogliono essere chiamati “musulmani moderati”, perché l’Islam non ha bisogno di aggettivi e chi vive autenticamente la propria fede religiosa e i suoi insegnamenti, non può che essere “una persona di pace”. Chiedono “un po’ di onestà intellettuale” per riconoscere lo sforzo che i seguaci dell’Islam nel mondo stanno facendo per sconfessare chi utilizza il nome di Dio per diffondere il Male. Ma soprattutto implorano ai giornalisti e ai politici di non gettare fango sulle comunità musulmane e sui loro leader. È un gioco pericoloso che allontana i giovani dalle loro comunità di riferimento con il rischio di radicalizzarsi. Layachi Kamel è imam delle Comunità islamiche del Veneto e da anni è impegnato sul fronte del dialogo. Legge con “occhi da musulmano” la lunga scia di sangue che il terrorismo sta disseminando dal Bangladesh a Nizza. E sono occhi – dice subito – intrisi di “grande dolore e grande tristezza ma anche di tanta rabbia perché vedo che ci sono vite innocenti che vengono uccise in nome di una ideologia che fa uso strumentale della mia fede religiosa, dei miei testi scritturali, dei miei simboli religiosi”.

Imam, si sono alzate voci nel chiedere al mondo musulmano maggiore chiarezza nella denuncia del terrorismo. Voi come rispondete?
Massimo Gramellini lo scrive su “La Stampa” con una lettera indirizzata al “caro musulmano non integralista” che vive in Occidente.

Ma io non sono un musulmano non integralista. Io sono un musulmano che cerca di vivere autenticamente e al passo con gli insegnamenti dei testi scritturali. Non ho bisogno di un aggettivo per auto-definirmi e l’Islam non ha bisogno di aggettivi per definirsi.

Stiamo diffondendo concetti che non corrispondono alla realtà. Chi vive autenticamente la propria fede religiosa e i suoi insegnamenti, non può che essere una persona tesa all’incontro, al dialogo, alla condivisione, una persona che rispetta la sacralità della vita e la libertà di ogni persona. Questo è l’Islam e tutto ciò che non è questo, non è Islam. È un’interpretazione eretica e strumentale dei testi.

Ad ogni strage, le maggiori sigle delle comunità islamiche pubblicano comunicati di solidarietà, cordoglio e condanna. Ma il messaggio non passa. Non pensa che ci sia un difetto di comunicazione?
Anch’io vivo in Italia e anch’io chiedo maggiori garanzie per la sicurezza della mia famiglia, della mia persona, della mia comunità. Non siamo un corpo estraneo ma parte di questo Paese. Anche noi frequentiamo i supermercati, viaggiamo sui treni, prendiamo gli aerei come tutti. Quando una persona uccide al grido di “Allah Akbar”, tradisce i testi scritturali, offende Dio e le comunità musulmane. Quante sono le vittime musulmane uccise dal terrorismo? Si sono alzate voci quando nella Medina del Profeta hanno fatto esplodere una bomba? Qualcuno si è sentito a disagio quando musulmani sono stati uccisi nel mondo? Se la vita è sacra, lo è per ogni persona umana.

Dobbiamo sentirci sconvolti quando vengono uccisi gli italiani nel Bangladesh o i francesi a Nizza, ma anche quando vengono uccisi i musulmani dalla stessa mano del terrorismo, altrimenti è una lettura selettiva della storia che non convince.

Non crede che manchi un’autorità islamica di riferimento in grado di rafforzare la forza del messaggio?
L’opinione pubblica non è ben informata sulla struttura delle nostre società musulmane, se chiede una leadership autorevole nel mondo musulmano che possa esprimere giudizi valoriali su un fenomeno. Però possiamo anche dire che nel mondo musulmano ci sono state diverse assemblee di studiosi, istituzioni religiose di fama internazionale che si sono espresse con documenti autorevoli e studi dettagliati dicendo che quello che stanno facendo i terroristi, è un’azione non islamica. Vorrei ricordare a questo proposito che all’inizio dell’azione militare criminale dell’Isis a Mosul nel 2014, un migliaio di ulema si sono riuniti a Istanbul e si sono espressi dicendo che la caccia al cristiano e la distruzione dei luoghi di culto sono inaccettabili, che la vita è sacra e che l’Isis non può autoproclamarsi califfato islamico. Anche Al Azhar -che è l’istituzione sunnita più importante -, la Corte suprema degli ulema dell’Arabia Saudita (anche se con riserva sul regime saudita), e diverse istituzioni in Marocco, Algeria, Mauritania, Europa, si sono espressi in tal senso. C’è un autorevole studioso siriano, Al-Yaqoubi, che ha scritto una fatwa dettagliata di 76 pagine per definire eretico e contrario all’insegnamento islamico quello che sta facendo l’Isis.

È importante però che di queste dichiarazioni si dia notizia, perché altrimenti si da l’impressione che il mondo musulmano sia in balia di una confusione totale. Ma non è così.

Nizza, Bangladesh, e prima ancora Parigi e Bruxelles. Il terrore è forte e la gente ha paura.
Ci vuole solo un po’ di onestà intellettuale per riconoscere lo sforzo che le comunità musulmane nel mondo stanno facendo. Vorrei lanciare allora un messaggio. A forza di chiedere ai musulmani cosiddetti “moderati”, perché non denunciate, perché non prendete posizione, si rischia di generare da una parte sospetto e dall’altra demotivazione.

O ci mettiamo d’accordo tutti insieme, senza retorica, senza strumentalizzazione, senza disinformazione a sconfiggere questo male per proteggere il Paese, o rischiamo di accrescere sempre più il fossato tra i nativi e le comunità musulmane che si sono insediate qui, in Europa.

Questo è il rischio più grave. E questo rischio è ancora più forte nelle nuove generazioni. Sono giovani nati e cresciuti qui, impegnati anche loro a integrarsi come tutti nella società. Se la sera però tornano a casa e sentono un politico o un giornalista che getta fango sulla loro comunità, sulla loro famiglia, sulla loro identità, questi giovani si allontanano e perdono il senso di appartenenza a questo Paese.

E “perdere” i giovani significa giocare con il fuoco?
Sì, stiamo rischiando tantissimo. Il mio compito con i giovani è diffondere il più possibile un’adeguata formazione religiosa per dare loro tutti gli strumenti necessari perché siano capaci di leggere con correttezza i messaggi che trovano soprattutto in internet. Viviamo in un mondo interconnesso e i giovani sono, tutto il giorno, attaccati ai social. Qui trovano buoni maestri ma ne trovano anche di cattivi con il rischio di radicalizzarsi in tempi brevissimi.

Ma se io imam vengo sconfessato tutti i giorni dai giornali e dai politici, perdo ai loro occhi autorevolezza e i giovani si allontanano da me perché non vedono più nell’imam del quartiere o della città un punto di riferimento. Faremmo in questo modo il gioco dell’Isis.

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