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Valigia e Vangelo i lituani in Europa migranti da sempre

Di Gianni Borsa

La lingua nazionale e la fede cattolica: due elementi caratterizzanti – certo non esclusivi né universali – i migranti lituani. Perché i lituani sono “esperti” di migrazioni: dal Paese baltico, storicamente finito tante volte nelle mire dei vicini più “grandi”, hanno preso la valigia sin dal ‘700 contadini e artigiani, giovani e mamme, impiegati e studenti, per cercare fortuna altrove. Così s’incontrano cittadini con passaporto lituano in mezzo mondo: solo negli ultimi 25 anni, dopo la caduta dell’Unione sovietica e tornata l’indipendenza a Vilnius, si calcola che almeno 6-700mila persone, su una popolazione totale di 3,5 milioni, abbiano lasciato il Paese, e solo centomila vi abbiano fatto ritorno. “Ma la chiesa lituana non abbandona la sua gente”, spiega monsignor Edmond Joseph Putrimas, direttore della pastorale dei migranti. “Cerchiamo di essere vicini a loro, all’estero, con i sacerdoti al servizio delle nostre comunità”. Carità e vangelo, le due parole-chiave che ripete Putrimas. Perché chi lascia il Paese non sia solo.

Londra, la prima tappa.
Ed è veramente una scoperta seguire, in giro per l’Europa, i preti lituani al servizio degli emigrati. Fra i quali ci sono persone più anziane, rimaste legate alle tradizioni nazionali e alla religione, ma anche seconde e terze generazioni, che conservano più facilmente la lingua rispetto alla fede. “La secolarizzazione arriva ovunque”, è la spiegazione che va per la maggiore. Don Petras Tverijonas vive nella zona est di Londra. “Qui un’ondata migratoria lituana risale all’inizio del ‘900, per sfuggire al regime zarista”, spiega. “Un’altra migrazione significativa si è avuta nel secondo dopoguerra”. Da allora nel Regno Unito si sono installate tre principali comunità lituane, contando in totale circa 200mila persone. “Nelle tre messe domenicali abbiamo 400 partecipanti alle funzioni. Qui a Londra abbiamo concentrato la preparazione ai battesimi e ai matrimoni per le tre comunità dell’isola. Lo scorso anno abbiamo preparato per il battesimo i genitori di 250 bambini. Le coppie che hanno seguito il corso prematrimoniale sono state 230”. Chissà quanti banchetti di nozze? Ma don Tverijonas racconta un’altra realtà, tipica delle comunità di emigrazione: per sposarsi si preferisce tornare a casa, dove i parenti faranno festa con gli sposi. Difficile così integrarsi nella società inglese: “È vero, anche perché i lituani tendono a essere riservati e un po’ timidi”.

Tra i fiordi norvegesi.
In Norvegia è invece attivo don Oskaras Volskis, “cappellano per i lituani a mezzo servizio”, dice, impiegando l’altra metà delle energie per una parrocchia locale e per un gruppo di cattolici polacchi. Il racconto è molto semplice, schietto: grande impegno per i connazionali, ma anche la fatica di restare se stessi di fronte a una chiesa locale che tende ad “assimilare”. C’è “un’ottima collaborazione con il vescovo e il vicario, ma con qualche parroco è diverso perché preferiscono l’uso della lingua locale” e non tutti apprezzano le altre lingue durante le liturgie. “Ma se la nostra gente non ha la messa nella lingua lituana non partecipa affatto”. Nascono così problemi identitari. “Quest’anno abbiamo preparato 40 coppie al matrimonio, ma tutte le nozze avvengono in Lituania, non in Norvegia”. “Del resto, con pochi euro si prende un aereo e si torna a casa volentieri”. Anche don Valdemaras Lisovskis è in Norvegia, da tre anni. L’azione pastorale, tra Bibbia e vicinanza alle persone, non può più fare a meno dei media sociali, spiega, perché “qui le distanze si misurano in migliaia di chilometri”. “E meno male che c’è facebook”, racconta il giovane sacerdote. A Oslo, città internazionale per quanto geograficamente periferica, si trovano polacchi, vietnamiti, filippini, persone arrivate dal Medio Oriente e dai Paesi mediterranei: per questo in una realtà a suo modo cosmopolita “teniamo a conservare la nostra lingua e la messa è celebrata in lituano. Se abbandoniamo la nostra lingua perderemo la gente”.

L’approdo irlandese. Dai racconti dei sacerdoti lituani emerge una preoccupazione comune: “Assimilarsi, in un Paese del nord Europa, spesso vuol dire accettare l’ateismo diffuso”. Un po’ diversa la situazione irlandese: donEgidijus Arnasius è approdato a Dublino dopo essere stato per tre anni cappellano dei lituani in Australia. “Sono stato accolto molto bene dagli irlandesi e dalla conferenza episcopale locale – afferma -, con la quale si collabora proficuamente”. Poi accenna a un aspetto inedito: “I lituani arrivati in Irlanda venivano dall’alienante esperienza comunista. Per questo sono piuttosto guardinghi, prudenti. Forse c’è timore di confrontarsi con la comunità locale”. Molti “andavano in chiesa a pregare e ad accendere candele, ma non a messa”. L’opera che si sta compiendo è quello di entrare in una relazione più profonda con la comunità locale. Ma, come sempre accade in realtà di emigrazione, “il lavoro da fare è ancora tanto”.

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