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A pranzo col Papa nel carcere di Poggioreale

M. Michela Nicolais

Una chiesa allestita a mensa, 100 detenuti come commensali, altri sette come cuochi coadiuvati da uno “chef” di professione, 70 volontari come camerieri, un menu frugale e sobrio ma napoletano “doc”: maccheroni al forno, arrosto con “friarielli” e per finire in dolcezza l’immancabile babà e la sfogliatella. Sono gli ingredienti del pranzo del Papa con gli ospiti della Casa circondariale di Poggioreale, dove le telecamere non sono ammesse, come è avvenuto per le altre visite analoghe durante i viaggi pastorali in Italia. A descrivercelo in anteprima, alla vigilia della “trasferta” partenopea di Francesco, è Antonio Fullone, da sette mesi direttore del penitenziario dove vivono attualmente 1.900 persone detenute. Poggioreale è il primo carcere che il Papa visita dopo aver annunciato il Giubileo della Misericordia. L’auspicio del direttore, forte della sua esperienza ventennale nel settore, ha il sapore tenace di un sogno: far diventare i luoghi di detenzione e di pena “un “laboratorio, un luogo di passaggio attorno al quale far convergere l’attenzione trasversale di tutta la società, superando lo stigma e facendo emergere tutto il bene che c’è”.

L’attesa e il contagio.
”La presenza del Papa è molto contagiosa”, e a Poggioreale – ci racconta il direttore a proposito del clima di attesa che ha caratterizzato questi giorni – “c’è grande fermento tra i detenuti, il personale di custodia, i volontari, i medici e tutti coloro che ruotano intorno al carcere. La nostra preoccupazione è di non essere all’altezza”. Per forza di cose, visti i tempi contingentati della visita, i momenti di contatto diretto con il Papa saranno limitati: prima di arrivare al luogo del pranzo – una delle due chiese del penitenziario, che oltre che come luogo conviviale viene utilizzata anche per eventi di vario tipo, Francesco percorrerà un lunghissimo corridoio dove (anche nel percorso inverso di ritorno) potrà incontrare i detenuti e gli agenti di polizia. Ma il “cuore” della visita al carcere partenopeo sarà il pranzo, a cui parteciperà anche l’unico argentino presente tra i reclusi: nella tavolata allestita per 100 commensali, insieme a Poggioreale saranno rappresentati tutti i penitenziari di Napoli: Secondigliano, l’Ospedale psichiatrico giudiziario e il carcere minorile di Nisida. I sette “chef” autori del menu seguono da due mesi un corso di cucina guidato da uno “chef” esterno che collabora, a titolo gratuito, con il carcere. Il pranzo per Francesco sarà per loro una sorta di “saggio finale”.

“L’ergastolo è una pena di morte mascherata”.
Queste parole forti del Papa, ci confida il direttore di Poggioreale, “mi aiutano a sentire la vicinanza, l’attenzione e il rispetto nei confronti di un mondo, quello che gravita attorno al carcere, troppo spesso dimenticato ed emarginato”. Il carcere, invece, “è un laboratorio, un angolo di osservazione privilegiato della società: qui si anticipano spesso situazioni che poi all’esterno si verificano solo più tardi, come la convivenza tra etnie diverse, la povertà crescente ben prima che la crisi dilagasse”. E poi ci sono le varie forme di disagio relazionale e familiare, esplose a dismisura negli ultimi vent’anni. Poggioreale non è un carcere facile: i detenuti che stanno scontando la loro pena coprono, tranne il 41 bis, tutto lo spettro dei reati previsti dal nostro ordinamento. Criminalità organizzata, alta sicurezza, delitti e furti di ogni tipo, violenza carnale… Bisogna saper gestire storie complesse e difficili, per questo “la dimensione umana non va mai trascurata”. Anzi, è proprio dall’umanizzazione di luoghi come questo che deve partire il percorso di reinserimento. “Noi ci stiamo provando a costruire una comunità carceraria diversa – assicura Fullone – con al centro la persona del detenuto, ma anche di chi lavora a stretto contatto con lui, a cui offriamo appositi corsi di formazione e di supporto. Perché il benessere di un carcere passa anche attraverso il benessere degli agenti di custodia”. E poi c’è il rapporto di “rete” con il territorio: “In questi sette mesi abbiamo registrato segnali confortanti”. Ma si può sempre fare di più: anche se Poggioreale, come tutte le carceri nostrane, non è guarito dalla malattia del sovraffollamento, non si toccano più i picchi di 3.000 detenuti che caratterizzavano anche il passato recente. “I numeri attuali – ci spiega il direttore – ci consentono di non vivere più in una situazione di emergenza quotidiana”. E così non è più un sogno impossibile, quello di “costruire e consolidare una rete di relazioni esterne, con il mondo del volontariato, con le istituzioni, con gli enti locali, perché il carcere sia sempre più un luogo della società, della città, della comunità”. Da domani, Poggioreale potrà contare su un alleato in più. Per ringraziarlo, i suoi abitanti hanno lavorato duro, nelle ultime settimane, per allestire il “Giardino di Francesco”, una piccola zolla di terra piena di fiori colorati all’ingresso della piccola chiesa del carcere.

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