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Nella morte di Marco travolto dalla Croce tutta la nostra fragilità

“È la speranza che chiediamo al Signore per i genitori di Marco: davanti alla loro sofferenza siamo costretti a tacere con immenso rispetto. Ma possiamo sempre sentirci vicini a loro e pregare perché il Signore li avvolga con la sua consolazione”. Scrive così monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia, a proposito della tragedia di Marco Gusmini, 21 anni, di Lovere, morto a Cevo, travolto dalla croce del Cristo Redentore, scultura creata da Enrico Job in occasione della visita a Brescia di Papa Giovanni Paolo II nel 1997.
Il ragazzo, classe 1993 e con disabilità motorie, faceva parte di un gruppo di ragazzi dell’oratorio di Lovere (provincia di Bergamo, ma diocesi di Brescia) accompagnati dal curato don Claudio Laffranchini, in pellegrinaggio alla Croce di Job in vista dell’imminente canonizzazione di Giovanni Paolo II. La nota del vescovo è stata rilanciata dal settimanale diocesano di Brescia, “La Voce del Popolo”, diretto da don Adriano Bianchi.
Inevitabili interrogativi. “Una croce, alzata in ricordo della visita del Papa, si spezza e uccide un ragazzo di ventun anni; e questo alla vigilia della canonizzazione di Giovanni Paolo II.
La coincidenza non può che dare forza alla notizia e suscitare interrogativi, quegli interrogativi che inevitabilmente si pongono quando accade una tragedia – ammette il presule -: perché avvengono cose simili? Il Signore non poteva impedirlo? Cosa gli sarebbe costato fare avvenire il crollo poche ore dopo, quando non ci sarebbero stati pericoli per nessuno?”. E, prosegue, “più in genere: è possibile inserire nella propria visione di fede un evento come questo? O dobbiamo solo confessare la nostra impossibilità di capire? Dobbiamo riconoscere che la fede è credibile nel contesto caldo di una chiesa, ma è costretta a diventare muta davanti alle sofferenze più gravi dell’uomo?”.
Fragili creature. A questi interrogativi, che possono nascere spontanei, monsignor Monari risponde: “No; la fede, in eventi come questo, c’entra e molto. Non la possiamo mettere da parte; siamo invece costretti, per lealtà e sincerità, a purificarla. Siamo costretti ad abbandonare una concezione miracolistica come se la fede fosse il modo per proteggere magicamente la nostra vita da tutte le tempeste che la possono sconvolgere”. In effetti, “siamo piccole creature, in un mondo molto più grande e più forte di noi; basta una minima grinza della natura, del mondo per schiacciare irrimediabilmente un’esistenza. Questa condizione di fragilità è la nostra; siamo portati a dimenticarla volentieri perché ci inquieta, ma è quella di ogni uomo, anche del più abile e potente”. D’altra parte, “Dio non è un attore del mondo come gli altri; non interviene regolarmente a cambiare il corso degli eventi della natura; non cambia i modi e i tempi in cui il legno marcisce o i metalli arrugginiscono per premiare qualcuno o eventualmente per punire qualcun altro. Dio ci ha messo nelle mani un mondo che possiamo conoscere, in cui possiamo imparare a vivere, che possiamo anche trasformare responsabilmente perché il contesto di vita sia più favorevole”. Ma, evidenzia il vescovo, “il mondo, la natura, rimane duro, inflessibile. A volte ci gratifica, a volte, come in questo caso, ci schiaccia. La fede non garantisce una franchigia magica da questa condizione di fragilità e di debolezza”.
Spiraglio di speranza. A che cosa serve allora? Se non ci protegge in frangenti come questo, a che cosa serve la fede? “Serve – spiega il presule – a mantenere la speranza, a trasformare le esperienze tragiche in solidarietà, in amore fraterno, in vicinanza, in condivisione. Serve a trovare la forza di portare il peso della tragedia senza diventare cinici e rassegnati come se nulla avesse senso e come se tutta la fatica che facciamo a vivere fosse pura ostinazione di creature illuse. Siamo ancora nel grande giorno di Pasqua, giorno di vittoria sulla morte”. Ma, sottolinea monsignor Monari, “lo dobbiamo ricordare, una vittoria che si è compiuta attraversando la morte, non scansandola. Gesù non ha potuto evitare di morire; ha potuto, invece, trasformare la sua morte in una forma di obbedienza a Dio e di amore agli altri. È per fare questo che la fede ci è indispensabile; ed è nel fare questo che si può aprire per noi uno spiraglio di speranza”. È la speranza, conclude, che “chiediamo al Signore per i genitori di Marco: davanti alla loro sofferenza siamo costretti a tacere con immenso rispetto. Ma possiamo sempre sentirci vicini a loro e pregare perché il Signore li avvolga con la sua consolazione”.
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