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Tre anni dopo Gheddafi in Libia si vive nella totale insicurezza

Di Davide Maggiore
“A Tripoli, la questione fondamentale è ancora quella della sicurezza: non c’è polizia né ordine in città, e manca ogni protezione per i cittadini”. Padre Allan Arcebuche, francescano di nazionalità filippina, nella capitale libica si occupa della pastorale dei lavoratori di origine asiatica, parte importante della comunità cattolica. Al Sir descrive un Paese le cui difficoltà – oltre tre anni dopo la rivolta contro Gheddafi – sono state confermate anche dalla conferenza internazionale di Roma del 6 marzo scorso, che ha fatto appello a un “dialogo nazionale” e alla formazione di un “governo stabile”.
Assalto al Parlamento. Solo pochi giorni prima era arrivato l’ennesimo segnale di precarietà: il 3 marzo dimostranti armati di coltelli e bastoni hanno fatto irruzione nella sede del Congresso nazionale generale (Gnc nell’acronimo inglese), il parlamento transitorio. Durante i disordini sono comparse armi da fuoco, e due parlamentari sono stati feriti. La protesta degenerata in violenza – racconta padre Allan – “era stata organizzata da studenti universitari contrari all’estensione del mandato del Gnc”, che sarebbe dovuto scadere il 7 febbraio, ma è stato prolungato fino a dicembre. A entrare nell’aula, spiega ancora il religioso, sono stati proprio i “giovani che non volevano ci fosse questa proroga”. Questa non era la loro unica richiesta: a tre anni dalla caduta di Gheddafi, continua infatti il francescano “ci sono ancora problemi” che, oltre alla sicurezza, riguardano anche la possibilità di procurarsi “cibo e lavoro: molti non hanno un impiego, e quindi attraversano difficoltà economiche”. “Spesso – specifica padre Allan – il problema è proprio il sostentamento quotidiano: questo vale soprattutto per coloro che prima ottenevano sussidi dallo Stato, ma ora non li ricevono più”. La protesta, però, non ha ottenuto al momento risultati: non si può considerare tale, in effetti, il fatto che, come riferisce il religioso, “i parlamentari sono stati costretti a trasferire la loro sede dall’edificio del parlamento a uno degli hotel di Tripoli”.
Instabilità istituzionale. L’attacco ai deputati ha anche avuto il risultato di inasprire i rapporti tra un’ala del Congresso e il premier Ali Zeidan, che alcuni parlamentari ritengono non abbia fatto abbastanza per combattere l’attuale clima di insicurezza. Alla possibile sfiducia per il premier si affiancano altri segnali di un quadro istituzionale ancora traballante: l’affluenza alle urne per l’elezione dell’assemblea costituente è stata bassa (poco meno di 500mila persone su 3,4 milioni di aventi diritto) e 11 seggi su 60 non hanno potuto essere assegnati perché le condizioni di sicurezza hanno impedito il voto in alcune aree. Dietro alle violenze, secondo padre Allan, ci sono vari fattori: “I rischi – spiega – esistono per lo più dal punto di vista degli scontri tribali e delle dispute tra commercianti”. In gioco, continua il religioso “ci sono gli interessi nel mondo degli affari legali, per cosi dire ‘alla luce del sole’, ma anche dei traffici illegali: i conflitti nascono per il controllo delle rotte delle merci, per questo ognuno crea la sua milizia, che fornisce protezione specialmente quando ci si muove nel deserto”.
Cristiani: paura a Bengasi. Per quanto riguarda il ruolo dei movimenti islamisti “non c’è molta chiarezza”, nota il francescano. Le pressioni sui cristiani si fanno sentire “in particolare sulla comunità copta e specialmente a Bengasi”, dove sono stati uccisi di recente – da ignoti – sette egiziani copti. “L’episodio ha creato un clima di paura e confusione tra la gente – dice padre Allan – ma, di nuovo, per lo più nella comunità dei fedeli arrivati dall’Egitto”. Le esperienze di altri gruppi sono differenti: “Siamo fiduciosi che per i cristiani di origine asiatica non ci saranno problemi – è l’auspicio del religioso – perché sono tutti lavoratori in settori chiave”, come la sanità. Il sacerdote filippino spiega però di aver comunque continuato a metterli in guardia, dando loro informazioni “sulla situazione di sicurezza e sulle restrizioni che riguardano i Cristiani”: la dichiarazione costituzionale secondo cui si governa il paese, infatti, garantisce la libertà religiosa pur definendo l’Islam religione di Stato, ma varie leggi ancora in vigore dall’epoca di Gheddafi la limitano, ed è proibito il proselitismo, pena l’arresto.
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