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Malta, una prigione a cielo aperto per gli immigrati

Di Patrizia Caiffa

Una spessa grata di ferro giallo con piccoli fori, per parlarsi come in un confessionale. Ma non è un confessionale, è quasi una prigione. Dietro quella grata vi sono oggi 700 vite sospese, in “detenzione preventiva”. Come quella di Ahmed, siriano, 20 anni, fuggito dalle bombe di Homs e arrivato a Malta con un vecchio barcone due mesi fa dall’Egitto e poi dalla Libia, pagando 3mila dollari ai trafficanti. La sua famiglia non sa più dove sia, che fine abbia fatto. Né lui sa se i suoi sono ancora vivi. All’arrivo le forze dell’ordine maltesi hanno requisito tutto, compresi soldi e cellulare. Occhi profondi e scuri come i capelli e la barba, è addolorato e sfiduciato. Quello che intravedo di Ahmed, attraverso i fori della grata, è una sconfinata desolazione. Siamo nel centro “chiuso” di Hal Safi, vicino all’aeroporto della capitale La Valletta, un complesso di ex baracche militari dell’esercito inglese gestito dalle forze armate maltesi. In alto e intorno tutte sbarre e filo spinato. Le condizioni igienico-sanitarie e gli standard di vivibilità sono impossibili da verificare perché ai visitatori del momento è concesso solo di restare nell’atrio. Niente foto, né video, né block notes. Siamo con una piccola delegazione dei responsabili della pastorale dei migranti delle Conferenze episcopali europee guidata dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, riuniti in questi giorni a Malta per un convegno sulla pastorale dei migranti e rifugiati organizzato dal Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali europee). In attesa del riconoscimento, o meno, come richiedenti asilo, i migranti devono rimanere qui per un periodo che può durare fino a 18 mesi, senza mai poter uscire.

“We want freedom”. Al di là del cancello e delle sbarre centinaia di volti scavati e corpi giovani, ma magri e provati, si accendono di una illusoria energia alla ennesima visita esterna a cui possono raccontare il loro dramma, accalcandosi intorno ai nuovi venuti, nelle vuote e lunghe giornate senza tempo né attività. Al massimo possono distrarsi con una partita di calcio in cortile. O con un televisore acceso che trasmette le immagini della tv locale, nell’atrio comune. Tutti calzano le infradito, indossano magliette colorate e pantaloni di fortuna, qualcuno una maglietta con Bob Marley e treccine rasta. Vengono tutti dall’Africa sub-sahariana, da Somalia, Eritrea, dalla Casamance (Senegal), dal Mali, ma anche dalla Siria e dalla Palestina: sorridono, urlano “We want freedom”, si avvicinano per parlare, implorare. Le storie sono tutte diverse eppure tutte apparentemente uguali: raccontano in un inglese stentato da dove vengono (tutti passano dalla rotta libica), come si chiamano, quanti anni hanno, da quanti mesi sono rinchiusi lì, da quanto tempo aspettano la seconda intervista per il riconoscimento dello status di rifugiato. Che non arriva mai. E chiedono, inesorabilmente: “Fino a quando saremo rinchiusi qui?”.

Centri “chiusi” e centri “aperti”. Il governo maltese ha diviso le strutture per migranti in centri “aperti” e centri “chiusi”, oltre ad alcuni centri per famiglie e minori non accompagnati. Dai centri “chiusi” come quello di Hal Safi non si può uscire. Qui vengono portati i migranti senza documenti appena sbarcati, dopo un primo riconoscimento dall’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), in attesa di fare la successiva intervista per accertare la possibilità dell’asilo politico, che di solito viene concessa a seconda della storia personale e della nazionalità, se sono in corso violazioni dei diritti umani, conflitti o abusi. Preferiti i somali, gli eritrei, i siriani. Però i tempi sono lunghi e i confini del centro sono stretti per chi non sogna altro che andare in Europa, visto che Malta è considerata da tutti solo un Paese di transito. Quelli che si vedono rifiutata la richiesta di asilo, possono opporsi una volta, Poi, dopo un nuovo rifiuto, devono restare nel centro per 18 mesi. Per le organizzazioni dei diritti umani questa è una detenzione “arbitraria” che viola gli obblighi internazionali di Malta sui diritti umani, anche per le condizioni definite “pessime”, “con accesso insufficiente ai servizi igienici, alla possibilità di lavarsi e scarse strutture di svago o ricreazione”. Chi non riesce a entrare in Europa come richiedente asilo resta a Malta, in uno dei centri “aperti”, da cui invece i migranti possono uscire per fare lavoretti in nero e poi rientrare la sera. In uno di questi centri, a Zadar, in un ex monastero gestito dalla Chiesa maltese, vivono 180 persone. Alcuni addirittura da sei anni. Donne, uomini, famiglie. E molti bambini, tra cui alcuni nati lì. Che non sanno nemmeno cosa sia una casa, una vita familiare normale.

In fuga verso l’Italia. Ufficialmente a Malta ci sono oggi tra i 10 e i 13mila migranti (tutti irregolari), ma fonti locali spiegano che in realtà molti riescono a imbarcarsi illegalmente verso l’Italia, grazie ai trafficanti del posto, che collaborano con i siciliani. Le presenze stimate sono intorno alle 7mila. A Malta la percentuale di richiedenti asilo è la più alta in Europa: 21,7 ogni 1.000 abitanti (dati Unchr riferiti al 2008-2012), con un tasso di riconoscimento dello status superiore al 50% di tutti i migranti che sbarcano sull’isola, in maggioranza provenienti dal Corno d’Africa. Secondo dati recenti, le forze armate maltesi hanno salvato circa 13.400 immigrati negli ultimi dieci anni: il picco massimo si è registrato nel 2008, con 105 operazioni che hanno permesso di portare a terra 2.018 persone; nel 2012 gli immigrati salvati sono stati 1.896. La Chiesa maltese è presente in queste strutture tramite la Commissione “Malta emigrants”, il Jesuit Refugee Service dei gesuiti ed altre associazioni, ong e parrocchie, fornendo cibo, aiuti, servizi.

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