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Il machete e il sangue Tribalismo o terrorismo?

Di Maria Chiara Biagioni

Il giovane punta con gli occhi la telecamera di un telefonino e spiega le ragioni della sua mattanza. Nelle sue mani sporche di sangue ci sono ancora il coltello e il machete utilizzato. Mentre parla, alle sue spalle si vede il corpo privo di vita del giovane soldato britannico ucciso, anzi decapitato. L’assalitore si scusa con le donne presenti sulla scena del delitto e urla: “Queste cose nella mia terra succedono ogni giorno. Nessuno è al sicuro. Cacciate il vostro governo, non si cura di voi”. Siamo a Woolwich, nella zona sud orientale di Londra. Sul campo è intervenuto Scotland Yard che ha fatto partire subito le indagini per capire se si tratti di un atto compiuto da due scriteriati o se sia un’azione premeditata inquadrabile in un contesto terroristico più ampio. Ma intanto le immagini riprese dal telefonino dei due assalitori sono state ritrasmesse da tv e siti internet. È la prima volta che l’attentatore si fa riprendere. È la prima volta che lo si vede così bene in faccia. Una novità che ha sconvolto non solo Londra.
Ne parliamo con Paolo Branca, esperto di mondo musulmano, docente di islamistica all’Università cattolica di Milano e da poco nominato responsabile per il dialogo con i musulmani dell’arcidiocesi.

Che effetto le fanno queste immagini?
“Certamente sono immagini sconvolgenti. Dietro probabilmente ci vedo un possibile cambio di strategia che è del resto segnalato anche dalla situazioni del Mali o della Nigeria. Mi sembra cioè che l’attenzione di questi gruppi terroristici si stia spostando verso l’Africa, divenuta un campo di confronto sia delle grandi potenze mondiali per l’accesso alle materie prime sia dei gruppi terroristici che vedono nell’Africa un luogo più facile in cui intervenire, con governi centrali molto deboli e situazioni tribali che agiscono su un territorio poco presidiato per cui basta pagare una tangente per avere via libera”.

Chi è secondo lei il ragazzo che si vede nelle immagini?
“Vedendolo così nelle immagini, non sembra collegato a qualche organizzazione. Potrebbe essere un singolo ma, se così fosse, sembra essere sintomo di una situazione più generale. Ha detto una cosa interessante: ‘da noi nessuno è più sicuro’. C’è quindi probabilmente questa acutizzazione della contrapposizione tra una parte del mondo in cui la vita delle persone vale poco o niente e un Occidente che seppure in crisi mantiene, almeno agli occhi esterni, le sue garanzie”.

È la prima volta che si vedono simili immagini: un ragazzo nero con il machete africano e le mani rosso sangue. Cosa sta succedendo?
“Credo però che quanto sia successo debba essere contestualizzato nel sistema britannico che ha scelto un multiculturalismo di tipo comunitarista. È impressionante quando si va da quelle parti vedere come le comunità vivano isolate le une dalle altre. Quartieri interi che sono abitati soltanto da pakistani o da africani. Sicuramente è un sistema che non favorisce l’integrazione o quanto meno il sentirsi parte di un qualcosa di comune”.

Queste immagini entrano nelle case degli italiani e possono scoraggiare una prospettiva di convivenza possibile con l’Islam. Come rispondere alla paura?
“Sicuramente quello che è accaduto ieri a Londra e il fatto che sia stato ripreso da un video rappresenta una novità. Quello che abbiamo visto è qualcosa di tribale: generalmente i terroristi si presentano o si sono fino ad oggi presentanti al mondo in maniera più tecnologica, ed hanno ambito ad obiettivi più ambiziosi. Qui invece abbiamo un uomo africano che con i suoi strumenti primordiali va ad attaccare un soldato britannico solo per la divisa che indossa”.

Vuol dire allora che abbiamo piccole bombe innescate in casa nostra? Cosa sta succedendo nelle periferie?
“Il disagio c’è e c’è sempre stato. Sicuramente questi fatti si acutizzano per la crisi economica da una parte e per il bombardamento mediatico dall’altra. È difficile aprire un giornale e non trovarci dentro brutte notizie. Prendiamo per esempio anche quello che è successo a Milano con il picconatore. Sebbene i due casi non possano essere assolutamente confrontati, si può comunque dire che non si era ancora mai arrivati a manifestazioni così esasperate. Evidentemente certe inibizioni stanno venendo meno per un senso di insicurezza, di disperazione, un sentimento quasi apocalittico che ci sovrasta”.

Senza cadere nelle “buone ricette”, quale via di uscita allora?
“Lo dico da tanti anni e purtroppo ho come l’impressione di gridare nel deserto: è vero che anche in Italia ci sono stati fatti di cronaca terribili come il padre pakistano che ha ucciso la figlia. Però bisogna sempre dire che sono solo questi fatti di cronaca a finire sulle pagine dei giornali. La stragrande maggioranza dei musulmani in Italia attua tutti i giorni una serie di mediazioni tra culture e generazioni. Però è una maggioranza silenziosa che non riesce a farsi ascoltare. Non dobbiamo poi sorprenderci se l’opinione pubblica è sbilanciata rispetto a questi temi”.

C’è rischio nei quartieri periferici qui in Italia?
“Qui in Italia non mi pare che abbiamo creato fino ad oggi quartieri-ghetto. E questo rappresenta per noi un vantaggio. Non siamo arrivati alle banlieue parigine né alle londonistan britanniche. Speriamo però in futuro di non crearli. Dovremmo piuttosto fare tesoro di questa tradizione e lo dovrebbero fare soprattutto gli enti locali chiamati ad instaurare con queste comunità immigrate delle politiche di convivenza a partire dalle cose positive che si fanno sul territorio”.

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