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Uomo e Papa dei gesti

Di Francesco Corrado

C’è un’immagine che resterà nella memoria collettiva la sera dell’elezione di Papa Francesco: l’inchino verso la piazza e la richiesta ai fedeli di preghiere prima della benedizione. Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ne è convinto e sa bene che “questo gesto non era suggerito da considerazione del momento; gli era già familiare, è coerente con il suo modo di essere pastore”. Così come la scelta del nome: Francesco. “È un programma, un’aspirazione: portare nel mondo sconvolto di oggi i valori di cui il Poverello è diventato l’emblema e l’icona universale, ossia la fratellanza, la pace, la povertà”. Padre Cantalamessa conosce bene il cardinale Bergoglio. Lo ha incontrato anche recentemente, a Buenos Aires, per una settimana di ritiro con il clero. Per questo non ha dubbi nel sottolineare che “l’impressione, che il mondo ha avuto vedendolo per la prima volta e sentendo le sue prime parole, corrisponde alla realtà della persona. Quello è davvero e da sempre l’uomo che è divenuto Papa Francesco”.

Padre Cantalamessa, sono trascorsi alcuni giorni dall’elezione di Papa Francesco, come ha accolto la notizia della scelta dei cardinali? Quali le sue impressioni, sentimenti e sensazioni?
“In me l’emozione di tutti, in quel momento, è stata accresciuta dal fatto che nell’ottobre scorso avevo avuto l’occasione, per la seconda volta, di trascorrere una settimana di ritiro con il cardinale Bergoglio e il suo clero a Buenos Aires ed ero rimasto profondamente colpito dall’umiltà, semplicità e profondità spirituale di questo pastore. L’impressione, che il mondo ha avuto vedendolo per la prima volta e sentendo le sue prime parole, corrisponde alla realtà della persona. Quello è davvero e da sempre l’uomo che è divenuto Papa Francesco”.

Come commentare la scelta di chiamarsi Francesco? In tanti hanno sintetizzato: “Nomen est omen”… Quale messaggio giunge dal nome del Papa?
“Il nuovo vescovo di Roma, come ama definirsi lui, ha spiegato lui stesso nell’omelia tenuta ai cardinali come è nata nel suo cuore l’ispirazione di chiamarsi Francesco. In questo caso più che ‘un augurio’ o un ‘destino’ (omen) il nome è un programma, un’aspirazione: quello di portare nel mondo sconvolto di oggi i valori di cui il Poverello è diventato l’emblema e l’icona universale, ossia la fratellanza, la pace, la povertà”.

C’è un dato che va sottolineato: il cardinale Bergoglio è un gesuita e ha scelto un nome francescano…
“Se a scegliere quel nome fosse stato un francescano si poteva pensare a un elemento di campanilismo; assunto da lui, gesuita, è doppiamente significativo. Noi francescani siamo ben consapevoli che Francesco non è monopolio nostro né di nessuno; appartiene a tutta la Chiesa e anzi a tutto il mondo. Lo ha dimostrato il fatto che quando si è voluto scegliere un luogo per incontri di dialogo e di riconciliazione tra i popoli e le religioni si sia scelto proprio Assisi. Come francescano non posso che dire ‘grazie!’ a Papa Francesco per aver scelto questo e di averci richiamati, noi francescani per primi, a seguire il suo esempio e farlo rivivere nel mondo d’oggi”.

Con Francesco è collegato lo “spirito di Assisi” e quell’apertura ai popoli e alle religioni impegnate per la pace. Ci saranno ulteriori sviluppi nel dialogo ecumenico e interreligioso?
“Una delle cose di cui sono più convinto è che con questo Papa il dialogo ecumenico tra cristiani e anche tra le religioni sarà una delle priorità. È stato uno dei primi in America Latina a sostituire alla lotta tra cattolici ed evangelici il dialogo e a organizzare attività comuni con quelli, tra di essi, che sono aperti al dialogo. Mi sono trovato anche con lui all’Università Cattolica di Buenos Aires in ottobre mentre assisteva al conferimento di una laurea honoris causa al rabbino capo della capitale argentina”.

È possibile parlare di una sintesi profonda in Papa Francesco tra la spiritualità ignaziana e il carisma francescano?
“La sintesi tra le due spiritualità è a monte, non è da realizzare, ma semplicemente da accogliere da comune Signore. Francescani, gesuiti e tutti gli altri ordini religiosi non fanno che riflettere, come tanti lati di un prisma, i colori diversi di una stessa fonte di luce. Sono sicuro che, prima che gesuita, Papa Bergoglio si sente un cristiano, come anch’io prima che francescano mi sento un discepolo di Gesù”.

Molto spesso si parla di semplicità francescana, senza però comprenderne il significato pieno. Qual è la portata di questa semplicità? Cosa significa, per i francescani, essere semplici?
“Bisognerebbe rileggere ‘I Fioretti’ di san Francesco per cogliere dal vivo il senso della semplicità francescana. Se si prova a definirla, cessa subito di essere tale e diventa ideologia. La semplicità di Francesco, come pure la sua povertà, non era una virtù, ma una persona: Gesù. La sua Regola comincia con queste parole: ‘La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il Santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo’. La semplicità di Francesco comincia con la rinuncia ai titoli di onore. Presso di lui non esistono ‘superiori’, ma solo ‘ministri’, cioè servi”.

Cosa l’ha maggiormente colpito dai discorsi pronunciati in questi giorni?
“Nulla mi ha colpito, nel senso di stupirmi, perché era lo stile del cardinale Bergoglio che conoscevo. Ciò che è rimasto nella memoria collettiva dell’apparizione sul balcone di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI furono delle frasi pronunciate in quel momento: ‘Se mi sbaglio, mi corrigerete’, oppure ‘Sono un umile servitore nella vigna del Signore’. Quello che resterà di Papa Francesco non sarà probabilmente una parola, ma un gesto: inchinarsi verso la piazza e chiedere ai fedeli di pregare per lui e benedirlo prima che lui benedicesse loro. Ma anche questo gesto non era suggerito da considerazione del momento; gli era già familiare, è coerente con il suo modo di essere pastore”.

“Non cediamo mai al pessimismo – ha detto Papa Francesco al collegio cardinalizio – a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno. Non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra”. Un invito che sa anche di rinnovato impegno pastorale…
“Dio sa quanto c’è bisogno di questo richiamo a non cedere al pessimismo. Per un cristiano il pessimismo denota sempre un calo di fede. ‘Non abbiate paura, io ho vinto il mondo’, ha detto Gesù; e ancora, prima di salire al cielo: ‘Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo’. L’ottimismo del cristiano non è velleitarismo e frutto solo di temperamento positivo. ‘Perché avete paura, uomini di poca fede?’. Queste parole rivolte da Gesù ai discepoli spaventati dalla tempesta risuonano sempre attuali e vere. Lui è risorto ed è ancora nella barca di Pietro. Plutarco racconta che attraversando l’Adriatico durante una tempesta, al nocchiero che era spaventato, Cesare disse: ‘Non temere: tu porti Cesare e la sua fortuna’. Che dovrebbe dire un cristiano e un pastore che sa di portare il Signore risorto sulla propria barca?”.

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