Patrizia Caiffa

Il Mali, terra di deserti, savane e città antiche e meravigliose come Timbuctù, è uno dei Paesi più poveri del mondo, con il 43,6% della popolazione sotto la soglia della povertà, siccità cronica che provoca crisi alimentare e una grave situazione di insicurezza in alcune zone del nord e del centro, a causa di gruppi armati jihadisti. Situato nell’Africa occidentale, è luogo di partenza di migranti e di transito: l’Europa lo considera, insieme a Niger, Nigeria, Senegal ed Etiopia, uno dei Paesi d’interesse prioritario per il controllo delle rotte del Mediterraneo centrale ma anche uno dei più pericolosi. L’Ue ha anche stanziato a giugno 2017 circa 50 milioni di euro per finanziare il contingente internazionale per contrastare il terrorismo islamico in tutta la regione del Sahel. È naturale che dal Mali molti vogliano partire verso l’Europa in cerca di sicurezza o opportunità lavorative per sostenere le famiglie. E altrettanti lo attraversino venendo da sud, affidandosi ai trafficanti. Qui i cattolici non raggiungono nemmeno il 2% della popolazione, che è di circa 18 milioni di abitanti

Terrorismo e instabilità. Dal 2012 e fino al 2015 il Mali ha vissuto un periodo di grave instabilità: la metà del nord era sotto il controllo dei gruppi ribelli tuareg secessionisti, alleati con gli islamici radicali, che combattevano contro le forze governative. Nel marzo 2012 c’è stato un colpo di Stato militare a Bamako. Solo con l’arrivo del contingente internazionale della Minusma (Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali) è stata ristabilita l’autorità del governo centrale, che ha portato alla firma dell’accordo di pace nel giugno 2015. Le minacce terroristiche non si sono però placate: nel novembre 2015 un gruppo armato ha attaccato l’hotel Radisson di Bamako, uccidendo 19 dei 150 civili presi in ostaggio. E dall’inizio del 2017 il gruppo armato al-Qaeda nel Maghreb islamico ha moltiplicato gli attacchi, prendendo di mira anche imam, capi villaggio, caschi blu dell’Onu, rappresentanti delle istituzioni e perfino chiese e cappelle cristiane. I civili sono coinvolti in esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, violenze e stupri. I terroristi reclutano facilmente giovani militanti, con la promessa di uno stipendio e di un kalashnikov che li fa sentire onnipotenti. La mancanza di sicurezza nelle zone di Gao, Kidal, Ségou, Mopti e Timbuctù ha portato addirittura alla chiusura delle scuole, a causa delle minacce ricevute dagli insegnanti. Per questi motivi oltre 150.000 alunni, come denunciato di recente da Amnesty international, non possono accedere all’istruzione e rischiano di essere arruolati come bambini-soldato.

Un progetto per ridurre i flussi migratori irregolari. Un luogo di transito delle migrazioni irregolari è la zona di Kayes, al confine tra Mali e Senegal. Chi parte dal Senegal spesso si ferma a Kayes per mettere da parte un po’ di denaro prima di affrontare il viaggio. Qui abitano circa 2 milioni e mezzo di persone, l’80% vive di agricoltura. Il 40% non ha accesso all’acqua potabile, il tasso di alfabetizzazione è solo del 22,9% e c’è un medico ogni 17.590 abitanti. La diocesi di Kayes, tramite il suo vescovo Jonas Dembelé, è tra i partner del progetto in Mali del Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), l’Ong dei salesiani, sostenuto dalla Campagna Cei “Liberi di partire, liberi di restare”, che destinerà in tre anni 30 milioni di euro per progetti nei luoghi di partenza, transito e accoglienza dei migranti. Altri partner sono i salesiani di Don Bosco in Mali e l’associazione salesiana Adafo, entrambi a Bamako. Le azioni del progetto, della durata di tre anni e finanziato con 1.515.778 euro dell’otto per mille Cei, sono previste a Bamako, Sikasso, Touba e Kayes.

L’obiettivo generale “è contribuire alla riduzione dei flussi migratori irregolari dal Mali, sostenendo percorsi di formazione ed inserimento socio-lavorativo in grado di creare possibilità per la gioventù locale e favorire la reintegrazione sociale dei migranti di ritorno”.

Oltre alla formazione professionale sarà realizzata una indagine su 200 giovani per indagare i bisogni dei potenziali migranti e sarà favorito l’accesso al mercato del lavoro, al credito e ad attività generatrici di reddito. A Kayes, ad esempio, 300 giovani saranno inseriti nell’agricoltura o nella pastorizia. Nel centro Père Michel di Bamako sarà allargata l’offerta formativa (da 433 allievi a 809 nel 2020) per giovani vulnerabili e potenziali migranti; saranno avviati corsi di orticoltura, allevamento, costruzioni metalliche ed energie rinnovabili. A Touba, fertile terreno di caccia dei trafficanti che provano a convincere i giovani a intraprendere il rischioso viaggio verso l’Europa, la comunità salesiana locale darà in gestione un terreno ad alcune cooperative di giovani e donne per realizzare colture innovative e formerà 150 giovani dei villaggi. Previste, tra l’altro, azioni di formazione dei formatori e accompagnamento all’inserimento socio-lavorativo a Bamako e Sikasso.

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