IconaDi Fabio Zavattaro

Papa Francesco in silenziosa preghiera davanti la Morenita, la Madonna di Guadalupe, è sicuramente l’immagine simbolo di questo viaggio in Messico, ferito dalla corruzione, dalla violenza, dal narcotraffico, metastasi che divora. È un Papa che consegna alla madre di Dio sofferenze e lacrime del popolo messicano, perché nella costruzione del “santuario della vita” nessuno può essere lasciato fuori e tutti siamo necessari specialmente quelli che non contano perché non sono all’altezza delle circostanze.
Il santuario di Dio, dice Francesco nell’omelia guadalupana “è la vita dei suoi figli, di tutti e in tutte le condizioni, in particolare dei giovani senza futuro esposti a una infinità di situazioni dolorose, a rischio, e quella degli anziani senza riconoscimento, dimenticati in tanti angoli”. Santuario di Dio sono le famiglie “che hanno bisogno del minimo necessario per potersi formare e sostenere”, ed è “il volto di tanti che incontriamo nel nostro cammino”. La guarda a lungo, in silenzio, con calma, seduto nel Camarin, la piccola sala dietro l’icona mariana. Le chiede di accompagnare tante vite, asciugare tante lacrime. Ricordando l’apparizione all’indio Juan Diego, afferma che Dio “ha risvegliato e risveglia la speranza dei più poveri, dei piccoli, dei sofferenti, degli sfollati e degli emarginati, di tutti coloro che sentono di non avere un posto degno in queste terre”.
È una preghiera di speranza per questo popolo, “dove non ci sia bisogno di emigrare per sognare; dove non ci sia bisogno di essere sfruttato per lavorare; dove non ci sia bisogno di fare della disperazione e della povertà di molti l’opportunismo di pochi. Una terra – dice all’Angelus a Ecatepec, la città delle donne scomparse e uccise – che non debba piangere uomini e donne, giovani e bambini che finiscono distrutti nelle mani dei trafficanti della morte”. È un Papa che

mette in guardia da una triplice tentazione: la ricchezza che emargina, la vanità che esclude, l’orgoglio che vede superiorità di qualunque tipo.

Guarda a una chiesa capace di uscire, di stare accanto a chi soffre, è in difficoltà; una chiesa che non si rifugia in condanne generiche, ma che si muove con coraggio profetico “avvicinando e abbracciando la periferia umana e esistenziale dei territori desolati delle nostre città”. Una chiesa che coinvolge comunità parrocchiali, scuole, istituzioni, politica: “solo così si potrà liberare totalmente dalle acque in cui purtroppo annegano tante vite, sia quella di chi muore come vittima, sia quella di chi davanti a Dio avrà sempre le mani macchiate di sangue, per quanto abbia il portafoglio pieno di denaro sporco e la coscienza anestetizzata”. Solo una chiesa “capace di proteggere il volto degli uomini che vanno a bussare alla sua porta è capace di parlare loro di Dio. se non decifriamo le loro sofferenze, se non ci accorgiamo dei loro bisogni, nulla potremmo offrire”.
Ai piedi della Morenita, in quella lunga e silenziosa preghiera, Papa Francesco avrà posto anche l’incontro storico con il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, soprattutto il cammino che è iniziato con quell’abbraccio all’aeroporto dell’Avana.

Un’isola, Cuba, diventata capitale dell’unità, ha detto Francesco, crocevia di dialogo tra chiese separate dal 1054. Due vescovi e due fratelli che si sono incontrati, che hanno parlato liberamente delle chiese loro affidate; che insieme hanno deciso di ritrovarsi per costruire processi di pace, in terre dove la violenza e il fondamentalismo mette a rischio la stessa presenza dei cristiani. Un incontro concluso con la firma di una dichiarazione comune nella quale i trenta punti hanno come scopo principale quello di indicare un cammino comune per contrastare il secolarismo, ma anche l’indifferenza che non fa vedere le sofferenze di tanti uomini e donne. C’è bisogno di una “maggiore integrazione tra le chiese cristiane”, ne sono convinti al Patriarcato ortodosso, anche a causa delle diversa attenzione ai temi etici da parte delle chiese della Riforma, rispetto alla chiesa cattolica.
Un incontro storico, dicevamo, che apre la porta alla speranza di giungere alla piena unità tra le chiese; che guarda al prossimo Concilio pan ortodosso che si aprirà il 14 giugno a Creta, e che rimette in primo piano una speranza coltivata da Giovanni Paolo II prima, e da Benedetto XVI, successivamente, di un viaggio a Mosca del Papa. L’incontro è un dono di Dio, ha detto Francesco commentando l’abbraccio con Kirill, e a Cuba “si è vissuto un giorno di grazia”.

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