ArmeniaDi Umberto Sirio

A 8 storici turchi è stato commissionato un lavoro per contestare il genocidio armeno. È una scelta che si situa nel solco della linea del negazionismo della Turchia moderna sul primo genocidio del Novecento, che negli ultimi tempi ha anche avuto segnali contrastanti.

Uno studio in vista del centenario.
Coordinati da Hasan Celal Guzel, già ministro turco dell’Educazione, otto storici turchi – su mandato del Centro di ricerche strategiche della Nuova Turchia Ytsam (Yeni Turkiye Stratejik Arastirmalar Merkezi) – forniranno materiali e contributi utili a confutare gli argomenti che diffondono rappresentanti e istituzioni legate al popolo armeno, in merito al genocidio compiuto nel secolo scorso, di cui si ricorderà il centenario nel prossimo anno. Come è noto, Ankara non lo ha mai riconosciuto come un piano deliberati di genocidio. A dare la notizia l’Agenzia Fides, dopo aver consultato fonti giornalistiche turche: l’obiettivo è quello di predisporre una pubblicazione di 20 capitoli da stampare in 7 lingue e distribuire alle rappresentanze turche all’estero.

Due milioni di morti.
Il genocidio armeno, il primo del Novecento – che ebbe un “prologo” negli anni 1894-97, sotto il sultano Abdul Hamid II (da cui il termine “massacro hamidiano”), quando furono saccheggiati e distrutti 2.493 villaggi, 568 chiese e 77 conventi; convertiti all’Islam 646 villaggi e 55 sacerdoti; uccisi 191 chierici; trasformate in moschee 328 chiese; ridotte alla miseria e alla fame 546mila persone, oltre a 300mila uccise, 50mila orfani e 100mila rifugiati in Transcaucasia – causò tra il 1915 e il 1922, grazie ai “Giovani turchi”, quasi due milioni di morti e milioni di profughi. Così, la popolazione del primo Paese al mondo a convertirsi al cristianesimo – nel 301 d.C. – fu sterminata.

Il negazionismo.
La Turchia moderna, per un secolo, ha negato il genocidio, sdrammatizzando i fatti e minimizzando il numero delle vittime. La tesi diffusa è sempre stata quella che le vittime – stimate in “sole” 350mila – perirono per “tragica fatalità”, durante i trasferimenti coatti della popolazione. Parlare del genocidio rappresenta addirittura una violazione dell’art. 301 del Codice penale, che riguarda il “vilipendio dell’identità nazionale turca”; ne sa qualcosa il premio Nobel per la letteratura nel 2006 Orhan Pamuk, processato negli anni scorsi per aver ricordato quei tragici eventi durante un’intervista.

Segnali contrastanti.
Il 23 aprile di quest’anno, il giorno prima della data nella quale il genocidio viene ricordato in tutto il mondo, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha rivolto le condoglianze ai discendenti degli armeni morti “nelle circostanze dell’inizio del XX secolo”, specificando che “è un dovere umano capire e condividere la volontà degli armeni di commemorare le loro sofferenze durante quel periodo”. Erdogan, nella sua dichiarazione, disse anche che quegli eventi riguardarono turchi, arabi, curdi, facendo intendere che gli armeni non furono le uniche vittime delle circostanze e che il messaggio di condoglianze – di certo, una novità – non cambiava niente sulla posizione della Turchia su quei fatti. È pur vero, che negli ultimi anni la linea turca del totale negazionismo ha conosciuto qualche crepa, a cominciare dalla conferenza che si tenne a Istanbul nel 2005, intitolata “Gli Ottomani Armeni durante il declino dell’impero: problemi di responsabilità scientifica e democrazia” – che rappresentò il primo dibattito pubblico sul tema – per continuare con le oltre 100mila persone che parteciparono ai funerali di Hrant Dink, giornalista turco-armeno, direttore del settimanale bilingue “Agos”, che si batteva per i diritti umani e la democratizzazione, ucciso nel 2007 con tre colpi di pistola, per finire con il Manifesto diffuso quest’anno, intitolato “Noi facciamo un sogno, insieme”, lanciato da intellettuali, artisti e accademici armeni e turchi, che va oltre il riconoscimento formale del genocidio per chiedere un futuro di “pace tra gli armeni e i turchi nel rispetto della storia e di ciascuno dei nostri popoli” e la riparazione politica e morale delle violenze del passato.

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