gazaDi Daniele Rocchi
Cosi vicine così lontane. Da una parte strade piene di buche e fangose, dall’altra ben curate e asfaltate. Da una parte solo distese di rifiuti dall’altra giardini verdi e ricchi di piante. Da una parte luci e ambienti illuminati a giorno, dall’altra il buio anche di giorno. Da una parte parchi pieni di giochi ma senza bambini, dall’altra nessun giardino ma tanti, tantissimi bambini a riempire strade e angoli di palazzi semidistrutti. Solo un chilometro separa Gaza da Sderot, cittadina israeliana di 24mila abitanti, ma a vederle oggi si tratta di due mondi distanti anni luce.
Un tempo, circa una ventina di anni fa, gli abitanti di Sderot si recavano a Gaza per goderne le spiagge e il mare, passarvi il tempo libero e i periodi di vacanza. I gazawi, invece, si recavano a Sderot per lavorare e guadagnarsi il pane. Contatti e amicizie erano la regola, la convivenza facile. Oggi tutto questo non esiste più. Gaza è una prigione a cielo aperto per i suoi 1,5 milioni e forse più abitanti, che da lì non possono più uscire, salvo poche eccezioni, chiusi da un alto muro di cemento armato e da valichi controllati rigidamente dalle Forze di sicurezza israeliane. Sderot, invece, è una delle città israeliane da anni più colpite dai razzi lanciati dalla Striscia dai miliziani di Hamas e della Jihad islamica. E per questo oggi chiusa in se stessa, traumatizzata dalla paura e dall’insicurezza. A Sderot praticamente li hanno contati: negli ultimi 15 anni sono caduti sulla città e sulla zona di confine qualcosa come 15 mila razzi, 4600 solo nel conflitto scoppiato nell’estate appena trascorsa. Le sirene di allarme della città nello stesso lasso di tempo sono risuonate per ben 650 volte. E ogni volta i suoi abitanti hanno solo 15 secondi di tempo per raggiungere il rifugio più vicino, o la safe room di casa, la camera bunker come viene chiamata qui, per restarvi fino al cessato allarme. Negli ultimi 15 anni i razzi da Gaza hanno provocato 15 vittime civili, l’ultima durante la recente operazione militare di Israele, “Margine di Protezione”, che ha provocato 2139 vittime palestinesi in poco meno di due mesi.
Omer Egozi è il direttore dello Sviluppo e Risorse dell’Israel Trauma Coalition, ong che si occupa di trattare i casi di traumi di guerra di bambini, giovani e adulti. “Sderot – dice mostrando resti ormai arrugginiti di razzi esposti nella stazione di polizia locale – è una città traumatizzata che vive nella paura di essere colpita in ogni momento. I suoi abitanti fanno fatica ad uscire anche per andare al supermercato. L’abitudine per loro è individuare il bunker più vicino prima di muoversi”. A Sderot anche aspettare alla fermata di un bus pubblico può rappresentare un problema, ed è per questo motivo che “le pensiline non sono altro che dei piccoli rifugi di cemento armato”. Una paura diffusa che ha indotto i vari Governi israeliani a dotare le abitazioni, almeno quelle sprovviste, di un rifugio antimissile. I giardini privati di Sderot sono pieni di queste casupole bianche che però non bastano a scardinare la paura. Questa si nota ancora di più quando ci si imbatte nei parchi giochi per bambini, “spesso vuoti – sottolinea Omer – poiché i genitori non vogliono rischiare i propri piccoli in caso di attacco”. Quello che in un parco dei divertimenti di qualunque altra città è un grande bruco di legno o di plastica o un trenino dentro il quale i bambini giocano, a Sderot è un lungo rifugio di cemento armato colorato a mo’ di bruco o di un treno. “È un fenomeno che si è sviluppato negli ultimi 14 anni, da quando le crisi con la Striscia si sono fatte sempre più gravi e violente. Non bastano rifugi e bunker a portata di mano per allontanare la paura anche perché adesso al timore dei razzi si è aggiunto quello per i tunnel scavati da Hamas che sbucano nei pressi della città elevando di fatto il rischio attentati”. Qui si inserisce l’attività dell’Israel Trauma Coalition: “il nostro compito – dichiara Omer – è quello di insegnare a convivere con questa paura, a rielaborarla, in modo da vincerla e vivere con maggiore serenità. Pensiamo che in tutta la regione vivano circa 60mila persone traumatizzate a vari livelli. Affrontiamo numerosi casi di giovani di 15 o 16 anni che non dormono più da soli o che fanno pipì a letto. Il 95% dei bambini che mostrano i maggiori traumi sono figli di genitori a loro volta traumatizzati. È necessario, quindi, lavorare primariamente con loro perché non c’è nulla da vergognarsi nel frequentare centri di aiuto. Occorre, poi, interagire con gli insegnanti, formarli in modo che possano avere strumenti idonei di conoscenza per affrontare il problema nel modo giusto”. Per ottenere risultati migliori l’Israel Trauma Coalition ha avviato collaborazioni con altre ong che affrontano lo stesso problema ma in ambito palestinese, “perché – dice – la paura accomuna tutti, israeliani e palestinesi”.
Divisi dalla paura, uniti dalla paura. Sembra un paradosso, ma non lo è. “Un tempo tra la gente di Gaza e quella di Sderot vi erano tanti rapporti e legami. Molti restano ancora oggi ma vanno tenuti nascosti”. Il rischio di essere accusato “una spia al soldo del nemico o peggio un collaborazionista” provocherebbe conseguenze drammatiche se non mortali. “Paghiamo oggi le scelte di una politica che non ha mai corrisposto ai desideri di pace. La gente qui vuole pace, tranquillità, giustizia, uniche strade per garantire la sicurezza dei due popoli”.

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