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Stiamo attenti alla comunicazione che semina zizzania e ai suoi frutti

DIOCESI – C’è una comunicazione che non costruisce, ma divide.
È la comunicazione della zizzania: quella che non nasce dall’amore per la verità, ma dal desiderio di mettere in risalto solo ciò che appare problematico, come se fosse l’unica realtà possibile.

Una comunicazione che seleziona, isola, raccoglie probabili chiacchiere, ingigantisce alcuni aspetti, ignorandone altri, e così finisce per distorcere il volto della Chiesa, delle persone e delle comunità.

La verità è sinfonica”, ricordava Hans Urs von Balthasar: non si lascia racchiudere in una sola nota, né nelle parti che fanno più rumore. Quando si sceglie di mostrare solo l’ombra, si finisce per negare la luce.

Il modo in cui comunichiamo tradisce il nostro vero intento.

Cerchiamo la verità intera o soltanto la parte che conferma ciò che vogliamo dimostrare? Vogliamo servire il bene della Chiesa, o minare la fiducia nel suo cammino?

Qual è l’obiettivo di certi racconti: illuminare o destabilizzare?

Far crescere la comunione o creare sospetti verso un vescovo, una diocesi, i collaboratori, i presbiteri?

È una domanda che dobbiamo porci seriamente, perché – come ricorda Papa Francesco – “la divisione è un’arma che il diavolo usa per distruggere la Chiesa”.

Ognuno di noi ha dei difetti. E mettere in risalto solo i difetti di una persona, anche qualora siano reali, significa volerle fare del male. Nessuno di noi è la somma dei propri limiti; e la Chiesa non è la somma delle sue ferite. Ciò che viene dal bene costruisce, rialza, accompagna; ciò che viene dal male divide, confonde, e usa persino la verità come strumento di offesa. Come dice San Paolo: La verità va vissuta nella carità (Ef 4,15).

Ancora più grave è quando certi giudizi, diffusi in forma anonima, vengono attribuiti in modo generico a interi gruppi o figure ecclesiali: si insinua così un’ombra di sospetto indistinto che finisce per ferire innocenti e infangare l’intero corpo ecclesiale. Se davvero ciò che si afferma fosse mosso dallo Spirito della verità, non ci sarebbe nulla da nascondere.

L’anonimato, invece, genera sfiducia e lascia intravedere un intento che non appare evangelico.

Il Signore, nel Vangelo, ci avverte: “Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,16). E i frutti della zizzania sono sempre gli stessi: scontento, divisione, sospetto, amarezza.

I frutti dello Spirito sono invece pace, benevolenza, fiducia, costruttività (cf. Gal 5,22).

La domanda allora rimane aperta – e dobbiamo porla prima di tutto a noi stessi: Quello che dico, quello che diffondo, quello che scelgo di far emergere… viene dal bene o dal male? Costruisce la comunione o la infrange? Porta unità tra popolo e pastore, tra sacerdoti e vescovo, o scava distanze? Serve la verità intera o solo una verità parziale usata per ferire?

Se davvero amiamo la Chiesa, se davvero desideriamo che cresca nella verità, allora dobbiamo rifiutare ogni forma di comunicazione che semina confusione e discordia. Perché – come ricordava in sintesi Santa Caterina da Siena: nella Chiesa non si entra per giudicare, ma per servire. E servire significa custodire l’unità, che non è uniformità ma comunione.

Che il nostro parlare sia sì sì, no no (cf. Mt 5,37), limpido, diretto, mai anonimo, mai insinuante.

E che la verità che cerchiamo sia quella che salva, non quella che divide.

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