
“Se le ricchezze minerarie della Repubblica democratica del Congo devono essere sfruttate, che lo siano, ma che ci lasciassero almeno vivere in pace”. È un appello accorato e rivelatore di molte speranze perdute quello di Depolin Wabo, che parla al Sir da Goma, nella provincia del Sud Kivu, una delle regioni più martoriate dal conflitto trentennale. La città di Goma è occupata dal gruppo armato M23 dalla fine di gennaio di quest’anno. Wabo lavora nel dipartimento della comunicazione per la Ong dei salesiani Vis-Volontariato internazionale per lo sviluppo, che opera a supporto delle donne e dei giovani del Nord Kivu in un progetto finanziato dall’8xmille Cei. Da quando è nato non ha conosciuto altro che la guerra. Tra le ragioni del conflitto c’è il controllo delle ingenti risorse minerarie – cobalto, rame, oro e terre rare necessarie per l’innovazione tecnologica – da parte di multinazionali e Paesi stranieri. Alcuni giorni fa i miliziani dell’M23, appoggiato dal Rwanda, hanno conquistato a suon di droni, razzi e colpi di mortaio la città strategica di Uvira, nella provincia del Sud Kivu. Sono stati uccisi oltre 400 civili, tra cui donne e bambini. Centinaia di migliaia di persone sono in fuga, molte abitazioni incendiate e distrutte. La notte tra il 15 e 16 dicembre il gruppo M23 ha però diffuso un comunicato in cui dichiara che si ritirerà unilateralmente da Uvira, aderendo ad una richiesta degli Stati Uniti. Il 4 dicembre scorso era stato appena firmato un accordo di pace tra RD Congo e Rwanda, un gesto favorito dagli Usa per garantire gli investimenti statunitensi nel comparto minerario. Anche Papa Leone XIII ha ricordato la Repubblica democratica del Congo nell’Angelus di domenica scorsa, esortando le parti in conflitto a “cessare ogni forma di violenza e ricercare un dialogo costruttivo nel rispetto dei processi di pace in corso”.

“Secondo i miliziani il ritiro da Uriba servirebbe a dimostrare la loro buona fede e la volontà di negoziare – spiega Wabo -. Non si può ignorare che proprio dopo la firma dell’accordo del 4 dicembre, Uvira è caduta. Oggi c’è stato il ritiro, ma domani ci saranno ancora morti. Dal nostro punto di vista è anche il risultato della forte pressione esercitata dalla comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti. È probabile che ci siano state delle negoziazioni che hanno portato a questa decisione”. Inoltre, non è la prima volta che l’M23 conquista una città o un territorio per poi ritirarsi. È accaduto anche nel marzo scorso a Walikale, nel Nord Kivu, “anche in quel caso con la motivazione di voler dimostrare fiducia e disponibilità al dialogo”.
“Purtroppo, viviamo in un sistema in cui manca un’informazione chiara e affidabile. Il nostro governo non comunica in modo adeguato, ma nemmeno i ribelli. Ognuno cerca di trasmettere solo ciò che gli conviene, indipendentemente dalla verità”, commenta Wabo. “In base alla nostra esperienza – prosegue -, questi sviluppi probabilmente non cambieranno molto la situazione sul campo. A livello internazionale, però, servono a migliorare l’immagine di un gruppo rispetto a un altro. Mostrando una presunta volontà di dialogo e di equità, cercano di presentarsi come se fossero dalla parte giusta”.
La popolazione congolese “fatica però a credere a queste narrazioni e a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è, anche perché dall’altra parte c’è il governo legittimo, che a sua volta non comunica in modo sufficiente”. Tutti sanno che dietro il conflitto ci sono gli interessi sui minerali anche se i media locali non ne parlano. “Quelli che lo fanno non hanno abbastanza voce per essere ascoltate. O forse, ci sono molte persone che preferiscono gli interessi della guerra a quelli della pace”. “Le multinazionali arrivano, sfruttano tutto ciò che vogliono e più a lungo dura la guerra, più facilmente possono sfruttare le risorse – sottolinea l’operatore del Vis -. Possono finanziare gruppi armati o partiti per guadagnare tempo”. Inoltre, in una situazione di ingiustizia, la corruzione prospera: “Se ci fossero meccanismi chiari per estrarre i minerali senza scatenare guerra, la popolazione ne beneficerebbe. E vivremmo in pace”.
A Goma e nei territori sotto il controllo dell’M23 la situazione è gravissima. “È un caos totale. A volte non sappiamo nemmeno come sopravvivere. Non ci sono banche operative, non ci sono salari per i dipendenti pubblici, non c’è denaro, non c’è lavoro – dice -. Quelli che lavorano non hanno salario, e questo è il problema principale. Senza stipendio, è difficile far circolare il denaro. I commercianti non possono depositare o prelevare il denaro. Immaginate come può vivere una popolazione per un anno senza salario e senza accesso a banche. È molto dura”. Qualcuno riesce ad andare nei paesi vicini o in altre zone del paese non controllate dai miliziani per ritirare un po’ di denaro, che passa attraverso molti intermediari.
Dal punto di vista umanitario è ancora peggio. Dal 1° dicembre, solo nel Sud Kivu, i combattimenti hanno causato lo sfollamento di oltre 500.000 persone, tra cui oltre 100.000 bambini. “La situazione umanitaria è complessa, c’è un grande bisogno, ma la risposta è inadeguata – spiega -.
Non ci sono campi profughi per varie ragioni, ma anche perché l’M23 impedisce l’ingresso degli aiuti
nelle zone sotto il loro il controllo. Le persone rientrano nei loro villaggi ma senza alcun supporto o assistenza, cercando di ricostruire la propria vita da zero”.
“La guerra cambia faccia ma è sempre la stessa”. Wabo non ha più fiducia negli accordi di pace, anche perché negli anni ne sono stati firmati tanti e nulla è cambiato: “Penso siano solo accordi formali. Sono nato nel 1990 e ho vissuto solo guerra.
La guerra cambia faccia ma è sempre la stessa, cambiano solo i nomi dei gruppi armati. Ora c’è l’M23”.
Non c’è molta speranza tra la popolazione, anche se “come cristiani – aggiunge -, speriamo che l’appello del Papa venga ascoltato e che qualcosa cambi. Ma la realtà sul campo è ben diversa”.
Se la sua voce potesse arrivare ai grandi decisori del mondo, chiederebbe che, “almeno per una volta, i potenti che alimentano la guerra ci lasciassero respirare un po’ – scandisce -. Vorremmo avere il tempo di piangere i nostri morti, di onorarli. Dall’inizio di quest’anno a Goma ci sono stati più di 3.000 morti e non abbiamo nemmeno avuto il tempo di piangerli e dare loro una sepoltura dignitosa. Forse moriremo senza aver avuto il tempo di farlo”. “Vorremmo una vita normale – conclude -. Vorremmo che i nostri figli possano andare a scuola, come gli altri e aiutarli a crescere nella pace. Noi non abbiamo mai beneficiato di queste ricchezze minerarie. La pace: questo è tutto ciò che chiedo”.




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