X

Siska è morta per eutanasia o per solitudine? Una riflessione che ci riguarda da vicino

Domenica 2 Novembre 2025, Siska De Ruysscher, 26 anni, ha scelto di morire. Lo ha fatto legalmente, con l’approvazione dello Stato e il silenzio di una società che le ha voltato le spalle. Non l’ha uccisa un male incurabile, ma una depressione profonda. Un dolore invisibile, che le aveva rubato ogni speranza.

Siska chiedeva solo una cosa: di essere ascoltata. E invece, per anni, ha trovato solo fredde procedure, sguardi distratti, porte chiuse. “Sono stata rinchiusa, sedata, legata. Ho visto gli infermieri alzare gli occhi al cielo, come per dire: ‘Eccola di nuovo qui!’ – ha raccontato poco prima di morire – Posso contare sulle dita di una mano gli operatori competenti che ho incontrato. Io sono il prodotto di un sistema fallimentare”.

Siska dunque ha scelto una soluzione definitiva ad un problema transitorio. Una soluzione definitiva, senza alcuna possibilità di appello, senza possibilità di ripensamenti. Perché?! Mi sono chiesta sconcertata. Perché a toglierle la vita, prima che un ago, è stata l’indifferenza.  Quella di una società che medicalizza la sofferenza, che prescrive pillole in 20 minuti e chiama “cura” ciò che non tocca il cuore.

In Italia, i dati AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) confermano che dal 2016 al 2024 l’uso di psicofarmaci tra i minori è più che raddoppiato. Ma curare non significa solo somministrare farmaci: significa accogliere, comprendere, accompagnare.

Pochi giorni fa, una donna della nostra comunità diocesana mi ha detto tra le lacrime: “Nessuno si accorge del mio dolore. Per questo motivo quasi non frequento più la parrocchia. Mi sento a disagio a stare lì, mentre tutti parlano, ridono e scherzano. Io invece mi sento trasparente, invisibile”.

Quante persone vivono così, in silenzio, dietro un sorriso di circostanza? Quanti chiedono solo una cosa – ‘Ascoltatemi davvero!’ – e non trovano nessuno disposto a farlo? Non servono sempre medicine. A volte la cura è uno sguardo gentile, una parola che non giudica, una presenza che resta.

Lo ha affermato anche Siska, con una lucidità disarmante, quando ha lasciato al mondo il suo testamento spirituale: «Siate comprensivi, anche con chi non conoscete. Non sottovalutate la gravità della vulnerabilità psicologica, anche se non è immediatamente visibile. Ascoltate! E con questo intendo: ascoltate davvero! E lasciate che le persone si esprimano, senza giudicare immediatamente”.

Questa sera, durante il primo incontro dell’itinerario formativo interdiocesano dal titolo “Vorrei solo essere ascoltato”, la dott.ssa Paola Bignardi ci ricorderà proprio questo, che il bisogno più profondo dei giovani – e di tutti noi – è quello di essere ascoltati.

E allora mi chiedo e vi chiedo:
Siska avrebbe davvero scelto di morire, se qualcuno l’avesse ascoltata fino in fondo?
Quanto vale il nostro tempo, se non lo doniamo a chi soffre accanto a noi?

Forse oggi, in un mondo in cui sempre si corre distrattamente, la più grande forma d’amore, è proprio questa: fermarsi, guardare e ascoltare. Davvero.

Carletta Di Blasio:

View Comments (8)

  • la solitudine è il male di questa società. Sembra strano asserire una cosa del genere perché pensiamo che ,soprattutto il giovani,vivano una vita intensa facendo mille attività. In realtà, proprio la vita frenetica non ci permette di trovare il tempo per poter parlare o ascoltare gli altri..Ognuno di noi è responsabile di chi ci sta vicino e offrire loro una parola,un gesto di solidarietà e amicizia.

  • Questa è una delle cose che può succedere quando chi soffre viene vista solo come un numero, o una pratica, e non come una persona con bisogno di essere ascoltata. Che la terra ti sia lieve. Povera ragazza, appena 26 anni. R.I.P.

  • Tra i giovani e meno giovani si nasconde sempre più tanta SOLITUDINE. Siamo sempre "in connessione" intrecciando rapporti di pochi istanti e qualche like ma poi si è soli. Molti ragazzi faticano a guardare. negli occhi chi parla loro e a sostenere uno sguardo se non ci si pone con sincera disponibilità. Molti educatori e docenti si trincerano troppo spesso dietro ai ruoli, lasciati dalle istituzioni in balia di se stessi ed allora ci si difende anche così. Troppe solitudini, questo è il vero male. Aumentano il suicidio, disturbi vari e consumo di farmaci...una sconfitta per una società. Grazie per averci donato questo momento di riflessione

  • In una società che impone efficienza e velocità, chi non sta al passo viene scartato, purtroppo. Penso se le nostre comunità possano definirsi veramente tali o se ci si incontra per il tempo necessario e poi ognuno ritorna alla sua vita. Mi chiedo se ci si pone in ascolto veramente e con attenzione di chi ci passa accanto o se le nostre occupazioni e preoccupazioni ci fanno dimenticare subito le richieste dell’altro. Forse dovremmo essere più attenti, guardare gli altri con meno superficialità, non avere paura di incontrarci e condividere le nostre fragilità, non individualmente, ma come comunità che si sostiene e accoglie.

  • La storia di Siska ci interroga e ci ricorda una verità che nella pratica clinica e nella riflessione sociale conosciamo bene: prima ancora della diagnosi o della terapia, le persone chiedono riconoscimento. Chiedono di essere viste. La cura comincia sempre da qui. Non è solo un problema clinico, ma anche sociale e culturale. Quando un sistema – sanitario, educativo o comunitario – risponde con procedure fredde, fretta o indifferenza, non è la persona a fallire, è il contesto.
    I dati sull’aumento dell’uso di psicofarmaci tra i giovani, i reparti di neuropsichiatria infantile sempre pieni, confermati anche dalle statistiche nazionali, non possono essere letti come un segnale di maggiore attenzione, ma come indicatore di una società che delega la cura al sistema sanitario, senza affrontare le dinamiche sociali che producono sofferenza. La richiesta di Siska – “Ascoltate davvero!” – è quindi anche una richiesta di riconoscimento sociale: di essere vista, compresa, inserita in relazioni significative che diano senso al proprio vissuto.
    La storia di Siska non è una tragedia individuale, bensì un segnale di criticità strutturali profonde nella nostra società. La sua morte evidenzia quanto il malessere psicologico, pur essendo diffuso, venga spesso invisibilizzato in contesti sociali che premiano la performance, la produttività e la normalità apparente.
    Quando Siska racconta di essere stata “rinchiusa, sedata, legata” e di aver incontrato solo pochi operatori competenti, non parla solo di esperienze personali, ma di un sistema che tende a medicalizzare la sofferenza, riducendo le risposte al dolore a protocolli standardizzati. Questo riflette una società in cui il disagio psichico viene spesso trattato come una questione privata e individualizzata, mentre le cause sociali che lo generano – isolamento, competizione, diffidenza, allarme, mancanza di reti di supporto – rimangono ignorate.
    La lezione che possiamo trarre è chiara e urgente: prendersi cura significa prima di tutto ascoltare, riconoscere e accompagnare le persone nel loro dolore, creando comunità e contesti in cui la vulnerabilità non venga invisibilizzata, ma considerata parte integrante della nostra vita sociale. Solo così possiamo sperare di prevenire altre tragedie simili.

  • Tra tante persone malate che lottano ogni giorno per vivere ce ne sono altre (sane) che , invece, desiderano morire. Questo ci deve far riflettere: sembra un paradosso! E invece è tutto riconducibile all'amore che si palesa con l'ascolto ; non l'ascolto nel senso uditivo ma l'ascolto del cuore dell'altro che si attiva con il silenzio e che dimostra amore. Quando in famiglia non si riceve ascolto, capita che lo si ricerchi altrove ( scuola, ospedali....) e quando neanche lì lo trovi, ecco che cadi nel baratro e ti convinci che di amore non ce n'è da nessuna parte. Povera ragazza.

  • È struggente quanto letto e la prima cosa che mi viene in mente è "Io che potevo fare? Perché non si riesce ad aiutare queste persone? Perché non ho fatto nulla?" mi sento in colpa e poi arrivano, nei miei pensieri, purtroppo, le solite giustificazioni " non hai tempo. Hai figli, una casa, lavoro, e altri da assistere." Ma questo non mi consola perché una povera ragazza è morta ed è un dolore senza fine. Purtroppo siamo in un modo di numeri e noi siamo numeri. Poche volte, nella sanità, si incontra umanità e queste sono troppo poche, per il sistema sanitario incentrato sul solo profitto dei Dirigenti. Mi fermo qui perché sarebbero infinite le argomentazioni da trattare. Ora voglio lasciare un riposa in pace a questa ragazza.

  • La vicenda di Siska così come viene crudamente commentata dal giornalista - "a toglierle la vita, prima che un ago, è stata l’indifferenza" - è una freccia al cuore che mi obbliga a prendere contatto con un dolore sordo che permea la nostra società e che tende a schiacciarmi in un senso di impotenza. Tuttavia, il messaggio nel cuore dell'articolo è una sollecitazione potente a non scoraggiarmi, a valorizzare tutte le volte che nel mio quotidiano riesco a "fermarmi, guardare e ascoltare".