DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.
La prima lettura, tratta dal libro del Siracide, afferma con forza che «la preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità».
Ce lo conferma anche il salmista quando dice «…i poveri […] gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte le loro angosce. Il Signore è vicino a che ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti…».
Qual è la forza della preghiera del povero? Cosa le dà tanta tenacia, tanta resistenza? Perché Dio “cede” di fronte ad essa? Perché Dio, davanti alla preghiera del povero, ascolta, interviene, dà soddisfazione, libera, salva?
Perché la preghiera del povero, così come quella dell’oppresso, della vedova, dell’orfano è una preghiera “leggera”. Leggera non vuol dire insulsa, frivola. La preghiera del povero è la preghiera di chi non ha pretese su Dio, è una preghiera umile, autentica, è la preghiera di chi ha la consapevolezza di presentarsi a Dio a mani vuote, di chi sa di essere bisognoso di tutto di fronte a Dio.
Il povero non ha nulla e nessuno su cui appoggiarsi, il povero non può contare sulle proprie forze. Il povero si presenta spoglio, nudo, davanti a Dio, consapevole di poter essere vestito, riempito solo dal suo amore misericordioso.
Da questo punto di vista è povero il pubblicano che ci viene presentato nel brano evangelico di oggi. Sale al tempio a pregare e «…fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”». Quest’uomo conosce bene la sua situazione – infatti prega Dio dicendo «abbi pietà di me peccatore» -, è consapevole delle proprie colpe, ma sa anche che il Dio a cui si rivolge, è un Dio che perdona. E Gesù, di quest’uomo, ci dice che «…tornò a casa sua giustificato», cioè, perdonato, salvato. Un uomo che si presenta nudo al Signore e torna alla vita rivestito e ricolmo dell’amore misericordioso del Padre. È la preghiera del povero, leggera, che arriva a Dio e che Dio ascolta ed esaudisce.
Ma, ci racconta ancora Gesù, che c’era un altro uomo nel tempio a pregare, un fariseo che «stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».
La preghiera del fariseo è pesante, è colma dei suoi atti di carità, dei suoi digiuni, dei suoi meriti. Certo, sono cose che il fariseo fa davvero, e non sono cose sbagliate, anzi, ma quest’uomo le compie solo perché di Dio ha un’immagine mercantile: io faccio tutte queste cose per te e tu, o Dio, devi ricompensarmi. Non attende la misericordia di Dio, non attende la salvezza come un dono ma piuttosto come un premio doveroso per il dovere compiuto.
Una sorta di autocelebrazione di sé, quella del fariseo. Si presenta a Dio colmo di tutto, non c’è più spazio per niente e nessuno dentro di lui, dentro la sua vita. Anche Dio, a questo punto, non può far nulla, non può aggiungere nulla, non ha un minimo di spazio dentro il quale riversare la sua misericordia.
Il fariseo, perciò, non torna a casa giustificato: quest’uomo non chiede a Dio di essere salvato, perdonato, si sentiva assolutamente a posto con tutta la legge che, ogni giorno, rispettava.
Il pubblicano, invece, è perdonato non perché è migliore del fariseo ma perché si apre ad un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita ma si accoglie; si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è anche la sua unica onnipotenza, capace di compiere miracoli in noi.
Concludiamo, allora, con le parole di Paolo al vescovo Timoteo, parole che vogliamo fare nostre e che ci aiutano ad accostarci a Dio con gli stessi sentimenti del pubblicano: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione». Una corona che non è ricompensa per i propri meriti ma che è donata a chi si fa sempre trovare fiduciosamente pronto ad essere riempito dall’amore del Signore.
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Grazie.