
Di Marco Lambertucci
Don Benedetto Labate, direttore della Provincia italiana dei missionari del Preziosissimo Sangue, racconta l’attualità delle missioni popolari, il loro legame con l’anno giubilare e l’importanza della continuità pastorale. Un percorso che accende la speranza, alimenta la fede e rafforza la comunione nelle comunità coinvolte.
Le missioni popolari hanno una lunga tradizione nella Chiesa e nella congregazione. In che modo oggi, in un contesto culturale e sociale molto cambiato rispetto al passato, riescono a parlare al cuore delle persone?
Il segreto delle missioni al popolo, come per ogni forma di evangelizzazione, è l’incontro personale con i fedeli (e non) di un determinato territorio. La possibilità inconsueta che la missione offre, nell’ascolto, nel dialogo, nel messaggio trasmesso, genera una relazione profonda tra chi annuncia e chi segue, semplicemente perché il contesto non è ordinario, è straordinario. È come se si risvegliasse un certo coraggio, una certa audacia nell’approfondire, nel rivelarsi, e siccome i missionari sono liberi da qualunque forma di condizionamento, sono predisposti a un’accoglienza più ampia della persona che hanno di fronte. Ovviamente,
chi resta sul posto è poi chiamato a mantenere vivo quel fuoco che si è acceso.
La missione si inserisce nel contesto dell’anno giubilare, che richiama alla speranza. In che modo questo legame con il Giubileo arricchisce l’esperienza delle comunità coinvolte?
La speranza è il motore della fede. Se l’essere umano non avesse una motivazione per vivere, si accascerebbe; invece, la speranza è ciò che spinge a impegnarsi, a muoversi per ottenere ciò che si desidera e che, in ultima analisi, altro non è se non la felicità. Ma, come abbiamo imparato dalle parole di papa Benedetto XVI e di papa Francesco, la speranza non è un’utopia, è una certezza, perché si fonda sull’amore di Dio, fedele e inesauribile. La missione alimenta la speranza, perché mostra concretamente che la comunione, il sogno di Dio per l’umanità, è possibile.
Uno degli aspetti centrali è l’incontro con la gente nei luoghi della vita quotidiana. Quali frutti sono nati da questa vicinanza concreta nelle esperienze di missione passate?
I frutti di una missione popolare non si vedono nell’immediato. Durante la missione c’è entusiasmo e, alla fine, nostalgia, ma ciò che Dio semina nei cuori porta frutto a suo tempo.
Quei giorni diventano un memoriale delle “mirabilia Dei”. Alcune cose – parole, gesti, segni – si fissano nella memoria e diventano occasione di crescita nella fede. Per altri, il rapporto con il singolo missionario si trasforma in un’amicizia, in un cammino di direzione spirituale o anche in un momento di verifica vocazionale, soprattutto per i giovani.
Queste sono le cose che vediamo; ma sono certo che lo Spirito opera molto di più.
Quali percorsi di continuità vengono lasciati alle parrocchie dopo la conclusione della missione?
La verità della missione si gioca nel dopo-missione, nella perseveranza e nella continuità, senza le quali tutto rischia di diventare un evento emozionante ma sterile. San Gaspare del Bufalo, nostro fondatore, lo aveva compreso bene, insistendo sull’importanza di costruire percorsi di accompagnamento, comunità che restano e legami che sostengono. Solo attraverso la cura del processo si diventa generativi e capaci di evangelizzare con efficacia e bellezza, ampliando la comunione. Il Centro per l’evangelizzazione garantisce un anno di accompagnamento nel post-missione, durante il quale il missionario torna sul posto per offrire un ciclo di catechesi mensile.
Avviare un processo significa creare condizioni nuove, ma non basta generare: occorre custodire.
Per questo, il Centro propone anche momenti extra per sacerdoti, famiglie e giovani, in collaborazione con l’Unione Sanguis Christi e con il Servizio di pastorale giovanile e vocazionale. Ai sacerdoti diocesani è rivolta l’esperienza della “fraternità sacerdotale”, che comprende due incontri l’anno, gli esercizi spirituali e una proposta missionaria. Per le famiglie USC è attiva la formazione “Famiglie in missione”, con due incontri annuali, esercizi spirituali e la partecipazione alla Koinè del Preziosissimo Sangue, raduno nazionale sulla spiritualità del Sangue di Cristo. Ai giovani, la pastorale giovanile propone il “tempo dello Spirito”, l’“orientamento vocazionale”, esercizi spirituali, campi di servizio e il convegno USC.
Il motto della missione di Priverno è “Chi è freddo non riscalda!”. Qual è il messaggio che si vuole trasmettere oggi con questa frase di san Gaspare del Bufalo?
La frase di san Gaspare, diventata il tema delle nostre attività pastorali di quest’anno, invita alla passione. Mi vengono in mente le parole del Cantico dei cantici: “Forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina!” (8,6). Il fuoco incendia, illumina e riscalda; così è di chi vive la passione dentro, così è chi ama. Questo slogan completa il paradigma delle tre virtù teologali: la fede è la luce della vita, la speranza è la lampada, l’amore è l’olio che brucia.




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